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Lettera a FPWGuglionesi
Pubblicato in data 3/4/2013 ● Click 1701

La spada di Dio


Mario Vaccaro © FUORI PORTA WEB

Ore 17.30 del 4 novembre 2007, una domenica dal clima mite che favorisce quello che dal mio punto d’osservazione è l’andirivieni a Fuoriporta di una folla vociante. Nei 20-30 minuti che seguiranno, la mia mente sarà l’inconsapevole supporto per la registrazione d’un filmato che ivi resterà impresso indelebilmente, la cui sceneggiatura sembra esser stata redatta dal diavolo in persona.
Ero, assieme a Paolo e Rosario, appena tornato dal raccogliere le olive: una sosta al bar per una birra era il rito officiato da Rosario, un’abitudine ben nota al proprietario della testa che fece in quel momento capolino sulla porta. Come ambasciatore, che a differenza di quello del noto proverbio porta pena, recapita la notizia del nostro arrivo … da questo battito d’ali d’una farfalla verrà a scatenarsi un violento uragano: Saiffedine entra nel bar per chiedere a Rosario il pagamento del residuo spettantegli.

A cavallo tra ottobre e novembre abbiamo lavorato insieme, per 10 giorni, quali unici incaricati della raccolta delle olive insieme a Rosario. Nasce subito un’amicizia, favorita dal grado di complicità che un lavoro di fatica come quello richiede; amicizia consacrata in quel paio d’ore spese, dopo il lavoro, nel consumare il rituale “birra + chiacchiera”. L’amicizia, si sa, è questione alchemica; da par mio è stata favorita dall’essere Saiffedine un “animo leggero”: così mi piace definire quelle persone dal cui contegno si riesce a decodificare l’assenza d’ogni risvolto meschino … cattiveria, invidia … estranee in quegli animi che sono prerogativa di quelle persone riservate che, nell’incontro con un loro simile che per qualche motivo ispira loro fiducia, si aprono all’amicizia. Di lui so poco, eppure in pochi giorni divento colui la cui compagnia egli cercava, ed io favorivo volentieri l’incontro. Ho sempre avuto un debole per le persone con quel carattere, quel grado di riservatezza generalmente etichettato come “mancanza di carattere”. Come lo si voglia definire non importa, certo è che quella sensibilità, che così marcatamente caratterizza il suo animo, so appartenere a coloro che usualmente conservano per molto tempo le cicatrici, i segni lasciati dai colpi bassi che la vita ci riserva nei momenti di avversa fortuna: la decisione di venire in Italia, i disagi dell’emigrato, gli éscamotages da “percorrere” in una metropoli – ad esempio trovare, pur senza lavoro, il denaro per pagare gli squali del commercio delle false assunzioni per poter rinnovare il permesso di soggiorno – e, soprattutto, la bella e amata moglie che non vuole venire in Italia. I rapporti con la sorella che s’incrinano e di cui, con l’onestà d’animo di chi non conosce meschinità, la relativa colpa riconosce dover essere a lui addebitata. Un disagio esistenziale che la chimica aiuta a rendere un po’ più tollerabile e che la comunità avrebbe già le chiavi di lettura per interpretare (un episodio su tutti è quello che avviene presso l’attuale Frantic, sulla soprastante terrazza da cui si sporge in un momento di fragilità) … una comunità che annovera Grilli Parlanti e tanti Lucignoli, che il suo senso di solitudine spinge comunque a frequentare, essendo un lusso nella sua situazione fare lo schizzinoso … che poi sarà proprio un Grillo Parlante ad indossare i panni del giustiziere, solo nella sceneggiatura del diavolo può accadere.

Quella maledetta domenica entra nel bar e nel salutarlo noto qualcosa di strano: mai l’avevo visto in quelle condizioni, aveva bevuto molto in compagnia dei Lucignoli. Ed infatti nel replicare più volte la sua richiesta di pagamento fa sfoggio di un’aggressività che non è nelle sue corde. Le reiterate richieste sono intramezzate da un “voi italiani m’avete rotto, non mi fregate più”, che fece scaldare l’animo di qualche presente. Con presenza di spirito zio Mimmo lo spinse fuori dal locale; fu un gesto d’altruismo verso il ragazzo, in quell’attimo in cui nell’aria gravava un’atmosfera di minaccia su di lui incombente. In un primo momento Saiffedine strinse un pugno per abbozzare una reazione, ma un momento di lucidità intervenne a diradare la nebbia che offuscava i suoi sensi: “zio, lasciami”. Esco per dare man forte ai buoni propositi di zio Mimmo, per sfruttare l’autorevolezza del mio ascendente su Saiffedine e convincerlo ad allontanarsi dai paraggi, ma la diatriba verbale con Rosario sfocia in un calcio di Saiffedine alla vetrata. Questo gesto muta la qualità della reazione di Rosario, che da verbale sfocia in un tentativo di aggressione fisica; io e Paolo afferriamo ciascuno per un braccio Rosario, impedendogli di compiere l’insano proposito.

Pomeriggio d’una domenica mite solo nel clima: a Fuoriporta una massa d’”acquirenti di ciliegie”, tra cui i compagni di bevuta nonché sobillatori del nostro, stanno a godersi lo spettacolo. Molti stanno nel marciapiedi opposto al nostro, altrettanti pressoché a contatto con noi, fuoriusciti da tre bar contigui. Lo spettacolo, ovvero Rosario che lancia minacce verbali mentre è trattenuto da noi due, cessa per un po’, riuscendo entrambi ad appropinquarci al bar e ad allontanare Rosario … ma movimenti e gesti della folla evidenziano un qualche accadimento: esco nuovamente dal bar e, parzialmente coperto dalla folla, vedo Saiffedine seduto a terra, qualcuno l’aveva picchiato. Rosario, che nel frattempo avevamo mollato credendo scongiurato il pericolo, percorre quei pochi metri e assesta una serie di calci a Saiffedine: questo quanto accaduto dinanzi a decine di spettatori non paganti, questo è ciò a cui ho assistito, incredulo. Vado da Saiffedine, che si rialza senza aver bisogno del mio aiuto, e mi dice che denuncerà l’accaduto … manco a farlo apposta arriva la Benemerita, che può registrare gli avvenimenti a caldo.
Dopo qualche giorno io e Paolo veniamo convocati in caserma; vengo ascoltato per circa un’ora ma, come avviene nella pratica, a differenza di quel che si vede nei film e che la legge prevede, il verbale non viene redatto contestualmente ma è un breve sunto delle mie dichiarazioni; quel che accade a Paolo è circostanza sconcertante che, se vorrà, potrà lui rivendicare ed io testimoniare. Durante il processo, per il quale non abbiamo incaricato difensori (per questioni di denaro e per voler vedere sin dove si voleva arrivare nei nostri confronti), nessuno dei due è stato mai ascoltato, nonostante da un giornale apprendo il contrario: strano, visto che eravamo i più vicini allo svolgimento dei fatti, emotivamente e quanto a distanza fisica.

La vicenda di Saiffedine è stata costellata da errori nella ricostruzione dei fatti, da un falso senso di giustizia per porre riparo ad un deprecabile contegno della comunità che non attiene all’omertà, da tonnellate di provinciale ipocrisia e dallo sviamento su autori morali, individuali ed istituzionali.
Per quanto riguarda i fatti, la ricostruzione della condotta criminosa da parte dell’accusa e quanto raccontato nei quotidiani mi sono sembrati al limite dell’irreale: soldi sbandierati sotto il naso della vittima, lui picchiato dentro il bar, il 2° fratello accusato nonostante i C.C. hanno visto assieme a me il suo arrivo in un 2° momento ecc … vabbè, che volete che sia, magari è solo incompetenza, la malafede non c’entra.
Il problema vero è rappresentato dalle istituzioni che, indossata la maschera del ruolo civile che compete loro, dovevano recitare il formale sdegno nei confronti del barbaro accadimento … il sindaco, don Gabriele, perfino il sindacalista sul giornale. Intendiamoci, ci sta tutto. Ma quando Saiffedine dormiva all’aperto, o in macchina di qualche suo amico (fino all’accoglienza da parte d’un conoscente rumeno), le istituzioni dov’erano? A guardare impassibili come gli spettatori di quella domenica? Ve lo dico io: nello stesso posto in cui stavano quando Luigi Ferrara, molto malato, è morto in un’abitazione gentilmente concessagli da un amico, senza luce e riscaldamento (abitazione che tale non era, non avendo i minimi requisiti d’abitabilità). Sono solo due esempi di persone a cui la comunità poteva e doveva tendere una mano, e altri ancora ce ne sono stati; eppure notoriamente una delle istituzioni sdegnate faceva la “carità” a Lucignolo in persona, centinaia d’euro che finivano in birre, poker …

Ma la commedia dell’arte, stupido io a non averlo previsto, era già iniziata seguendo un preciso canovaccio: occorreva trovare qualche capro espiatorio per lavare l’onta del ridente paesino, salvaguardare la retorica della provincia dai buoni sentimenti e poter gridare “giustizia è fatta!”. I nomi più idonei da spendere erano proprio quelli di chi, paradossalmente, aveva cercato di evitare a Saiffedine d’essere picchiato. Già, la morale ha fatto sì passi avanti, sono stati sdoganati pure gli omosessuali, ma per la droga i tempi non sono ancora maturi. Un ex drogato resta sempre tale, il suo è un peccato originale, indelebile, tatuato a vita: dunque per la società dei benpensanti è immondizia, un parìa, indifendibile … insomma sacrificabile.
Ora basta dilungarmi, anche perché quando parlo della mentalità piccolo borghese dell’italiano medio, questo pericoloso delinquente perbenista del cui pensiero dominante - per una dominanza fatta di numeri e non di qualità - siamo schiavi, mi vengono i conati di vomito … la mia ex professoressa, la zia bizzocca tutta casa e chiesa ecc.: “vedi che succede a frequentare certi ambienti?” (e io che frequento gli oliveti sin da bambino). Nessuno ad evidenziare la mia estraneità, in oltre 40 anni di vita, da qualsiasi forma di violenza, che ho sempre ripugnato.
Io, purtroppo, mi sento davvero colpevole, ma non d’aver favorito i carnefici (al limite avrei favorito Saiffedine di cui ero amico): il mio cruccio è non aver allontanato con forza la futura vittima, di averlo invitato solo a parole. Temo, soprattutto, che il piglio decisionista che non ho avuto è stato il riflesso della stessa pavidità mostrata dall’intera comunità, d’una sorta di “fammi fare i cazzi miei”. Del giudizio della comunità, di questo particolare volto della comunità, me ne sbatto la ciolla; non essendo credente, poi, non ho un Dio a cui chiedere perdono, né Saiffedine – temo – sarà mai in grado di farlo.
Ai buonisti offro uno spunto per una riflessione: restando a Guglionesi, nelle condizioni in cui era, con l’aiuto che solo qualche raro singolo gli ha fornito, che prospettive credete avrebbe avuto il nostro? Un rumeno lo soccorse per offrirgli un riparo, che lavorava in nero per una ditta appaltatrice d’un servizio comunale … noi tutti, invece, che abbiamo fatto per lui?
Se ne è tratta una lezione da quanto accaduto? Non credo, dato che circa un anno dopo un cinquantenne era senzatetto e, dopo appelli rivolti ai dilettanti della carità rimasti infruttuosi (l’ho ospitato io 10 giorni) è “emigrato” … guglionesani, brava gente!
E adesso che sono stati condannati, pensate un attimo anche al dramma dei “carnefici”, alle conseguenze che anche loro (sebbene non come Saiffedine) pagheranno care per qualche istante di follia: così come non è gente perbene chi ha assistito al pestaggio, i 2 fratelli non sono bestie.

P.S.:
Il titolo rappresenta – così mi spiegò Saiffedine – il significato del suo nome.


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