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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 29/8/2012 ● Click 3562

Il Capitolo della chiesa di Guglionesi ed i vescovi di Termoli (1690-1884) [IV parte]


Sergio Sorella © FUORI PORTA WEB

Il Capitolo della  chiesa di Guglionesi ed i vescovi di Termoli:

storia di un lungo contrasto (1690-1884)

 

di Sergio Sorella

 

 

IVª ED ULTIMA PARTE

 

1.  I tentativi di  ripristinare gli antichi privilegi

 

          A partire dal 1861 il clero della chiesa ricettizia di Guglionesi tentò di riprendersi i vecchi diritti,  persi con il Breve Impensa,  perché –secondo una memoria di un canonico, depositata presso l’Archivio parrocchiale- nel 1821 «il vescovo di Termoli, fornito di poteri illimitati dal governo borbonico, abusando contro Guglionesi ch’era stata dicastero, nel 1820, della rivoluzione politica, applicò il disposto di detto Breve, violando ogni diritto e ragione».[1]

          Il clero locale, con l’unità d’Italia, si giocò anche la carta anti borbonica per riottenere i diritti ritenuti lesi[2] e così provvide ad eleggere tre nuovi sacerdoti nel Capitolo in sostituzione di altri precedentemente deceduti e non rimpiazzati dal vescovo. Contestualmente i sacerdoti diedero corso ad un’azione legale, concertata con lo stesso Municipio, con la quale ritenevano nullo il  Breve Impensa (perché c’era stato un cambio di regime che aveva annullato le disposizioni precedenti) e si riappropriavano dell’elezione delle cariche vacanti. Il tutto condito da dichiarazioni di fedeltà alla corona sabauda: «Distinti fra i primi liberali della Provincia di Molise, fidati nella grandezza e magnanimità del Re Galantuomo d’Italia Vittorio Emanuele II, quale con ogni alacrità ed energia  proclamarono, primi dè paesi limitrofi e del circondario e Provincia ed a cui si sottoposero con la pronta e debita annessione».[3] Un comportamento che non passò inosservato. Il vescovo dell’epoca era Vincenzo Bisceglia che, nominato nel 1851, resse la diocesi per 37 anni, ma  fu costretto a lasciarla nel 1860, per ben cinque anni, perché considerato un reazionario filo borbonico.[4] Il suo vicario, Domenico De Angelis, il 18 agosto 1864 scriveva parole di fuoco al clero di Guglionesi: «E’  giunta a conoscenza dell’Ill.mo vescovo di questa Diocesi il nuovo attentato di codesto clero ricettizio(…) riprovevolissimo per essersi arrecato oltraggio a Dio, disdecoro al sacerdozio e scandalo alle anime».[5] La risposta dell’arciprete Angelo Maria Pace non si fece attendere ed era incentrata nel sostenere la tesi  che il Capitolo aveva ripristinato il suo antico diritto, chiudendo la missiva laconicamente: «la controversia dunque non spetta decidersi a competitori, ma al tribunale competente, presso cui trovasi, fin dallo scorso anno, depositati per dovere  tutti i documenti e  pratiche richieste all’uopo, onde giudicare della validità dell’operato».[6]

          Il Capitolo della chiesa di Guglionesi, sostenuto dagli amministratori locali, aveva inviato nel febbraio del 1863 gli Statuti e tutti i documenti alla Cassa Ecclesiastica di Roma, atti a dimostrare la natura della chiesa e la sua solidità economica derivante dall’antico diritto patronato che lo svincolava dall’ordinario diocesano.[7] Il quale, tramite il suo vicario, continuava a chiedere se i nuovi eletti fossero muniti di bolla vescovile e di regio exequatur, ritenuto inutile dai capitolari in quanto gli  Statuti della chiesa prevedevano delle forma diverse di aggregazione dei partecipanti. Inizialmente la controversia registrò un punto a favore del Capitolo che ottenne un importante riconoscimento dalla Cassa Ecclesiastica di Napoli, la quale, dopo aver esaminato la documentazione ricevuta, pronunciava, il 13 settembre 1865, una sentenza in cui si riconosceva alla chiesa di S. Maria Maggiore il diritto di ritenersi ricettizia,  dunque di continuare ad amministrare i beni ad essa appartenenti.[8]

          L’avvento dello stato unitario, però.  aveva inizialmente comportato la definitiva soppressione delle decime e dopo, nel 1866, la soppressione di tutte le rendite della chiesa e del Capitolo, lasciando alla chiesa una povera rendita ed ai sacerdoti una pensione vitalizia.[9] Automaticamente venivano anche a cadere le ragioni del contenzioso in atto: non poteva esistere una chiesa ricettizia senza rendite proprie. Pertanto, sull’intera questione non vi fu un parere definitivo, poiché con il passare degli anni si arrivò al 1874 quando, in ottemperanza a quanto disposto dalle leggi del nuovo stato, furono soppresse le chiese ricettizie ed il Fondo per il culto aveva  provveduto a liquidare un assegno ad ogni sacerdote. Anche in questo caso il clero locale cercò di conservare alcune rendite, almeno della chiesa di S. Antonio abate e dell’ospedale annesso, che erano di fondazione ecclesiastica e non laicale.[10]

          Il clima politico e religioso stava progressivamente cambiando e le stesse autorità locali, che in passato avevano sempre sostenuto le richieste del clero contro le interferenze dei vescovi di Termoli, ebbero atteggiamenti diversi, chiedendo,  ad esempio, ai sacerdoti che beneficiavano di una pensione vitalizia  da parte dello Stato, di ottemperare all’obbligo  di celebrare tre messe ad orario preciso nei giorni festivi.[11] Anche questo era un segno che in questi anni il Capitolo aveva progressivamente perso il ruolo di potere e di prestigio di cui per secoli aveva beneficiato; il tutto in un contesto nel quale le cariche dei partecipanti non venivano rinnovate ed i dodici sacerdoti erano ridotti ad otto.

         

 

2.  L’ultimo privilegio: l’arciprete doveva essere di Guglionesi

 

          Il diritto più importante che il capitolo aveva conservato, nonostante tutti gli avvenimenti succedutisi, riguardava il fatto che l’arciprete, pur divenuto con l’Istrumento del 1757 di libera collazione e dunque nominato dal vescovo, doveva essere scelto tra i clero nato a Guglionesi. Il problema si pose con la morte dell’arciprete Angelo Maria Pace nel 1871, eletto dai capitolari con il  vecchio sistema nel 1920. La sua morte pose il problema della successione; il vescovo Bisceglia tergiversò a lungo, per ben cinque anni, durante i quali, non procedette a rimpiazzare la carica vacante e diede al sacerdote De Socio, nativo di Guglionesi, l’incarico di  vicario curato, fino a quando, il 22 novembre 1876, a sorpresa, nominò vicario curato il sacerdote Michele Janigro di Volturara Appula, un sacerdote missionario sacramentalista  che dimorava a Guglionesi, invitandolo a «provvedere a tutti gli aspetti spirituali  di codesto popolo fedele, siccome ella in gran parte ha praticato finora e sicuri che spiegherà tutta la sollecitudine e  zelo per  la maggior gloria di Dio».[12] La decisone del vescovo riaccese le ire  del clero locale e la reazione non tardò a manifestarsi con un atto pubblico nel quale i sacerdoti dichiararono di non riconoscere Janigro come vicario curato della chiesa, essendo egli sfornito dei requisiti previsti dagli Statuti capitolari, in quanto cittadino non nato a Guglionesi.[13]

          L’azione legale ebbe inizialmente i suoi frutti. L’anno successivo la Procura generale del re, presso la Corte d’Appello, negava il regio placet alla bolla dell’ordinario di Termoli con la quale era stato investito il sacerdote Janigro del beneficio parrocchiale:« Perché la nomina avvenne senza la previa pubblicazione ed apertura del concorso e nella persona di un estraneo al suddetto Comune in violazione dei patti ed obblighi racchiusi e stipulati espressamente nel 2 giugno del 1757».[14] In seguito a questa determinazione il vescovo Bisceglia non tornò indietro dai suoi propositi; attese qualche mese e, l’8 marzo 1878, incurante di tutto, trasformò la nomina di Janigro da  vicario ad arciprete.  Il nuovo arciprete conservò l’incarico fino al 1892.

          Furono anni nei quali i sacerdoti guglionesani continuarono  nella loro rivendicazione con un ricorso al tribunale di Larino (il 25 maggio 1882) e con l’invio di tutta la documentazione riguardante le prerogative del clero locale all’Arcivescovato di Benevento (il 16 ottobre 1883) perché facesse da tramite e sollecitasse la Sacra Congregazione del Concilio a pronunciarsi. L’invio non sortì l’effetto voluto ma produsse qualche risultato  sul piano degli impegni futuri.

           Infatti, nel 1884 Raffaele Di Nonno, vicario del vescovo  Bisceglia  ormai vecchio e malato, si impegnò perché si arrivasse ad una composizione della controversia. Il Di Nonno autenticò e dichiarò veritieri i documenti antichi  comprovanti i diritti posseduti dal Capitolo e si ripromise di nominare per il futuro, alla carica di arciprete, solo sacerdoti nati a Guglionesi. In effetti gli arcipreti successivi  furono tutti guglionesani: Vincenzo Caruso (1892-1901), Angelo Maria Rocchia (1901-1907) e Nicola Silvano (1907-1933)[15]. Quello del 1884 fu, dunque,  l’accordo che chiuse il lungo contenzioso tra il clero di  Guglionesi ed i vescovi di Termoli.

          In questo periodo il clero locale si era ridotto e la sostituzione dei posti vacanti divenne problematica, essendo il capitolo ridotto a pochi sacerdoti, perlopiù anziani. Dopo la morte dell’arciprete Nicola Silvano, erano rimasti solo quattro sacerdoti del vecchio Capitolo, tutti anziani e di salute malferma, tanto che nessuno si sentì in grado di ricoprire la carica di arciprete. L’11 giugno 1933 il vescovo  Oddo Bernacchia nominò il forestiero  Antonio Castelli, nativo di  Spoleto, senza nessun contrasto con il clero locale[16].

 

          Si concludeva, in questo modo, una vicenda che aveva coinvolto, in forme diverse, la chiesa locale per ben duecento anni. In questo lungo contenzioso emerge, da parte dei sacerdoti guglionesani, la ferma determinazione di difendere gli antichi privilegi. La nascita dello Stato unitario  contribuì ad accelerare la frattura con il vecchio sistema e rappresentò anche la progressiva perdita di potere economico e sociale del clero, attraverso l’abolizione della proprietà ecclesiastica, delle decime, delle chiese ricettizie (con i suoi postulati per il reclutamento del clero) e di ogni altra condizione di favore o di privilegio economico. La libera collazione del vescovo ridistribuiva diversamente il clero, proveniente, ormai in gran parte, dai seminari. Il clero di Guglionesi tentò tutte le strade per conservare gli antichi diritti acquisiti con la fondazione della chiesa parrocchiale ed infine, ridotto nel numero  e nell’autonomia, dovette adeguarsi ai tempi nuovi.

          Alle antiche rivendicazioni di Guglionesi, relative alla sede vescovile, si univano tensioni derivanti da condizioni economiche  molto diverse con Termoli. Anche il patronato laicale contribuì ad isolare il clero locale dall’autorità ecclesiastica,  attraverso la gestione autonoma della formazione del clero, l’amministrazione dei beni della chiesa,  la gestione delle pratiche religiose e l’elezione dei partecipanti  del Capitolo e delle due dignità di arciprete e primicerio. Quando,  a partire dalla metà del Settecento, i vescovi iniziarono a ridurre l’autonomia dei sacerdoti di Guglionesi, secondo il disegno generale della Curia romana di riportare ordine nelle chiese locali, il clero locale vide in queste azioni un progetto per ridimensionare anche le condizioni  migliori in cui si trovavano i sacerdoti ed il paese di Guglionesi rispetto a Termoli. La progressiva perdita di potere  dei capitolari ed il diverso sviluppo dei due centri del basso Molise, accentuarono un distacco che, ancora oggi, nonostante le notevoli trasformazioni intervenute,  riemerge nella memoria storica collettiva.


 

[1] Ibidem, b. 2, f. 5.

[2] A.p.G., b. 3, f. 16, Ricorso al Principe Eugenio di  Carignano, luogotenente di Napoli (1861)sottoscritto dai sacerdoti: Pace, De Socio, Salvatorelli, Massari, Rispoli, Lorito, De Simone, De Lucia, de Lillis, Crialese e  un altro Lorito.

[3] A.p.G., b. 3, f. 9. Il 18 marzo 1862 il Municipio di Guglionesi, con un atto pubblico,  testificava, lo zelo dei sacerdoti del Capitolo nella cura delle anime ed invitava successivamente, nel gennaio 1863, a ricoprire le cariche vacanti essendo ciò di esclusiva pertinenza della chiesa ricettizia. Ibidem, b. 2, f. 3.

[4] Sulla figura e sul ruolo di Bisceglia nella diocesi: S. Sorella, Chiesa e città cit., pp. 457-66.

[5] A.p.G., b. 3, f. 10.

[6] Ibidem, b. 3, f. 11. Lettera dell’arciprete Pace al vescovo Bisceglia, 21 agosto 1864.

[7] Ibidem, b. 5, ff. 24-25. Anche per le citazioni successive.

[8] Ibidem, b. 34, f. 12.

[9] Ibidem, b. 5, f. 27. L’assegno spettante ad ogni partecipante, stabilito dal Ministero delle finanze, era di  £ 212,50 a testa e di £ 537,75 per il parroco, a titolo di congrua.

 [10] Ibidem, b. 34, f. 2, Esposto al Ministro del culto, 13 marzo 1868.

[11] Ibidem, b. 35, f. 9,«cioè una semplice all’alba per comodo dei contadini, l’altra cantata  dopo recitate le ore canoniche, e la terza semplice poco prima di mezzodì e perciò viene chiamata la meridiana», gli inadempienti avrebbero perso la pensione.

[12] A.p.G., b. 35, f. 3, Lettera del vescovo al sacerdote Janigro.

[13] Ibidem, b. 35, f. 2, 30 dicembre 1876, i sacerdoti firmatari furono: Rispoli, De Lucia, De Lillis, Lorito, Pace, Giordano, Di Narzo, Gizzi.

[14] Ibidem, b. 35, f. 5, Comunicazione della Corte d’Appello, 14 dicembre 1877.

[15] Ibidem, b. 3, f. 8.

[16] Ibidem, b. 39, f. 2.


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