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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 13/7/2011 ● Click 1635

Province: no alla difesa del passato, sì al cambiamento. Il Molise nella "Marca Adriatica"


Pietro Di Tomaso © FUORI PORTA WEB

“Perché non si parla di riduzione degli enti politici? E’ facile rispondere: perché una parte esigua della nostra classe dirigente pretende di dedicarsi alla politica come fonte di reddito. E non c’è posto per tutti… Pochi sono quelli che potrebbero affrontare – nello specifico – la sfida di candidarsi in entità regionali più ampie. Molti pretendono di continuare a diventare consiglieri regionali con 800 voti” (così Sergio Sammartino su “Forche Caudine” – il sito dei romani d’origine molisana). L’autore che ho citato è un tenace assertore della riunificazione del Molise con l’Abruzzo partendo dalla constatazione che oggi esiste una concorrenza internazionale che ha stravolto gli assetti economici dell’Occidente. Occorre quindi dare corso a trasformazioni di adeguamento non potendoci permettere di mantenere apparati politici inutili. “Crediamo che il bene dei molisani – sottolinea Sergio Sammartino – sia recuperare una area di attività, di scambio e di identità più ampia che dia loro maggior respiro culturale, politico ed economico”.
Personalmente propendo per una cooperazione interistituzionale di macro-area, secondo un modello di progressiva integrazione delle decisioni strategiche di interesse reciproco con le regioni Abruzzo e Marche, che non escluda in futuro la fusione di più regioni (Art. 132 della Costituzione). Ciò premesso, il titolo di questo articolo vuole richiamare l’attenzione del lettore in primo luogo sulla necessità di ridurre le province. E allora ben vengano le proposte delle forze politiche che condividono questo obiettivo affinché spieghino a quante province saranno ridotte le attuali 110, quali di esse dovranno aggregarsi in una sola, quali compiti si intendono riconoscere agli enti in questione. Di certo l’eliminazione o la riduzione delle province non può essere un’operazione fine a se stessa, ma deve essere inserita in una cornice di riordino generale degli enti locali. Una scelta, questa, che non deve essere dettata solo da esigenze di contabilità dello Stato, ma da una valutazione strategica volta a individuare un nuovo tipo di ente intermedio. Si potrebbe pensare ad una legge che introduca soglie rigide a carattere demografico per ridurre il numero delle province e per cambiarne radicalmente il volto, abolendo gli attuali consigli provinciali sostituendoli con l’assemblea dei sindaci del territorio in modo da ridurre i costi e l’entità del personale politico, per un maggiore raccordo tra province e comuni. Non, quindi, un nuovo distributore di poltrone ma una realtà amministrativa molto diversa e più funzionale ai bisogni di cittadini e imprese. La riflessione che viene fatta da chi propone l’eliminazione delle province è che negli ultimi decenni si è assistito alla proliferazione dei livelli di governo sub-centrale: alla regione, ai comuni e alle province, si sono aggiunte le comunità montane, le unioni di comuni, le gestioni associate dei bacini, gli enti di bacino (per i servizi idrici integrati e lo smaltimento dei rifiuti), le Asl e i costi amministrativi connessi alla moltiplicazione dei livelli di programmazione e gestione dei servizi pubblici. Tali costi non sono trascurabili, in quanto gli organi direttivi di questi enti sono spesso pletorici. Inoltre, gli enti c.d. ‘monofunzionali’ non hanno poi assorbito del tutto le competenze degli enti locali sovrastanti (regione e provincia) nelle materie in cui operano. Ciò rilevato, non porta però automaticamente ad affermare che le province dovrebbero essere soppresse.
Una soluzione ragionevole potrebbe basarsi sui seguenti punti:
1) assorbimento delle funzioni delle province in quelle delle città metropolitane, quando istituite;
2) riaccorpamento delle province di minore dimensione, stabilendo con legge un limite di popolazione al di sotto del quale non si può procedere alla costituzione dei medesimi enti;
3) mantenere in vita le amministrazioni provinciali in tutti gli altri casi rimarcandone il ruolo di coordinamento e programmazione dei servizi di area vasta. Paradossalmente, sarebbe meglio abolire regioni come il Molise (con una popolazione di 320 mila abitanti in tutto) e potenziare le province.
Però c’è la questione delle funzioni legislative regionali cui la provincia potrebbe assolvere meglio. Isernia, una provincia che non arriva a 100 mila abitanti, a tutt’oggi non ha funzioni delegate dalla regione. Andrebbe quindi aggregata al capoluogo regionale Campobasso, salvo che nel suo territorio affluiscano ulteriori cittadini residenti per effetto del passaggio sotto la sua giurisdizione di alcuni paesi del basso aquilano che aspirerebbero a farne parte. Si consideri inoltre che, in un futuro scenario di macro-regione, Pescara potrebbe assurgere ad un ruolo di amministrazione, coordinamento e programmazione di area vasta. In Francia, ad esempio, i comuni costituiscono la base dell’organizzazione amministrativa (insieme alle regioni e ai dipartimenti). Le regioni sono concentrate in macroregioni e chi scrive queste note ha avuto modo di frequentare per parecchi anni la regione Provence-Alpes-Cote d’Azur. Anche in Italia dovremmo ragionare in termini di macroarea e le forze politiche dovrebbero farsene una ragione. Qualche barlume di speranza sembra intravedersi.
Il presidente della giunta regionale del Molise, Michele Iorio, intervenendo al convegno di Pescara del 13 giugno scorso dal titolo “Marca Adriatica- Abruzzo, Marche, Molise al futuro”, ha dichiarato: “In tempo di federalismo non c’è più spazio per l’enfatizzazione delle differenze e per ribadire continuamente il concetto di autonomia. E’ invece imperativo fare ricorso a tutte le possibili iniziative che consentano ai territori di svilupparsi lavorando in sinergia tra loro per fare massa critica e creare sviluppo e crescita socio-economica”.
Il presidente degli imprenditori molisani si è schierato per una scelta federale attuata “anche attraverso una federazione sovraregionale che consentirebbe forte rappresentatività delle aree territoriali, maggiore unità d’intenti su progetti sovrastrutturali e più peso nelle relazioni con Europa e resto del Mondo”. “Un’occasione che va colta in tempi brevissimi quella della ‘Marca Adriatica’ o per il Sud dell’Europa sarà il disastro – ha commentato il Senatore Mario Baldassarri -. L’Adriatico deve riappropriarsi del suo ruolo e pensare alla riliberalizzazione dei Balcani e poi iniziare a ragionare per macroregioni… Cogliere l’opportunità significa investire in infrastrutture fisiche e nella valorizzazione delle produzioni e dei distretti. La politica deve riflettere sul tessuto socioeconomico e fare dell’Adriatico la piattaforma logistica dei flussi di globalizzazione”. Il sindaco di Pescara Luigi Mascia da parte sua ha aggiunto: “Pescara già oggi rappresenta il cuore pulsante, il punto di riferimento di una Macroregione Adriatica”. Il consigliere regionale Michele Petraroia ha proposto “l’avvio di una stagione nuova per costruire una dimensione più ampia del Molise che coinvolga l’Abruzzo e le Marche e dia vita alla Regione Adriatica”. Per concludere, è vero che i cambiamenti debbono essere meditati, ma non facciamo trascorrere tempi biblici per dare corso, nell’interesse del bene comune, al riordino amministrativo ovvero più propriamente alle riforme dell’assetto politico-istituzionale delle regioni Abruzzo, Molise, Marche (auspicabilmente federate nella ‘Marca Adriatica’) e delle altre regioni italiane.


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