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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 11/7/2011 ● Click 2678

Era di Luglio... 2011


Giorgio Senese © FUORI PORTA WEB

Un tozzo di pane secco con tranquillità è meglio di una casa piena di banchetti festosi e di discordia. (Prov.17,1)

Non è passato molto tempo, ma chi può dirlo?, il tempo ha sempre una dimensione relativa, nel senso che ha un valore solo se messo in relazione a qualcosa che funge da unità di riferimento, di misura.
Ad esempio: per produrre la quantità di cambiamenti che si sono avuti tra il ‘600 ed il ‘700 e che furono allora, definiti “fulminei”, oggi impiegheremmo meno di vent’anni.
Grazie alle nuove tecnologie ed alla rete che ci ha catturati tutti, pesci, granchi e cozze è possibile interagire con chiunque in tempo reale per cui gli accadimenti e i cambiamenti sociali e culturali sono estremamente velocizzati rispetto al passato.
Pensate alla rivoluzione che internet ha innescato nel mondo arabo e, quando parlo di innesco, mi riferisco anche al significato del termine in purezza.
Resta un limite, e su quello possiamo farci ben poco, il limite derivante dall’intrinseca debolezza strutturale umana.
Noi, stirpe di Adamo, siamo esseri progettati e concepiti dal “Supremo Architetto” per vivere in sintonia ed armonia con la natura che ci circonda per godere di quei rapporti affettivi che rendono piacevole la condivisione delle nostre unicità con i nostri simili.
Più semplicemente possiamo dire che i nostri ritmi biologici hanno una capacità limitata di adeguamento.
Non possiamo reggere a lungo la frenesia a cui, invece, siamo costantemente sottoposti ed è certo che l’affanno che ci autoprocuriamo, se non controllato, ci ucciderà tutti e la morte può essere non solo fisica ma anche spirituale e morale.
Alcuni mesi fa, facendo pulizia nel mio studio, ho ritrovato un flow sheet di un impianto industriale che ho disegnato a mano diverso tempo fa su carta lucida, usando l’inchiostro di china.
Rappresentava il frutto di tante ore di lavoro e a malincuore presi ad accartocciarlo allo scopo di ridurne il volume prima di infilarlo nella busta tra le cose da buttare.
Incuriositi dal rumore che producevo, i miei bambini hanno abbandonato la play-station e si sono avvicinati.
Alla loro richiesta di spiegazioni ho illustrato le tecniche di disegno tecnico prima dell’avvento dei computer e, mentre lo facevo, notavo i loro occhi che si spalancavano sempre di più fino a quando, all’unisono, hanno sbottato - Non c’erano i computers?...ma che dici?...come al solito ci stai prendendo in giro,... vero papà?
Mi sono sentito un reduce del jurassico.
Oggi voglio far memoria di persone e avvenimenti accaduti non troppo tempo fa, nella consapevolezza di parlare di un mondo che non esiste più.
Quella notte di luglio di 35 anni fa stava trascorrendo tra il caldo che non faceva dormire e continui cambiamenti di posizione alla ricerca di un angoletto del letto ancora fresco. I rivoli di sudore che dalla fronte bagnavano il sottomento, si perdevano poi tra cuscino e lenzuola.
L’angoscia mi assaliva con la consapevolezza che il mattino sarebbe arrivato presto ed il tempo dedicato al riposo era ormai prossimo a finire.
La nostra casa si trovava a piano terra, faceva parte di quel complesso architettonico che fu il maestoso convento dei Padri Celestini con l’annessa chiesa dell’Annunziata.
Credo che anticamente fossero degli ambienti dedicati a magazzini o stalle, considerato che si affacciavano sull’antico orto, per capirci, lì dove oggi hanno piantato quel palazzone di sei o sette piani, alle spalle del distributore di benzina.
Avevamo una sola finestra ed era stata chiusa perché il “fagugn” che soffiava di fuori era caldo e soffocante.
Più che dare sollievo spossava la gente dalle fondamenta.
Disperato decisi di fare un ultimo tentativo.
Mi sdraiai sul pavimento con le sole mutandine e la frescura che recuperai mi conciliò il sonno. Alle ossa ci avrei pensato dopo.
Quello che mi sveglio fù il rumore che mia madre faceva in cucina, non si curava di evitarlo o contenerlo, perché era ormai ora di alzarsi.
Il sole stava quasi per alzarsi,... era già tardissimo!.
Il terreno dove eravamo diretti era appartenuto ad un signore che si chiamava Pasqual du Ciagulon (al secolo Zarlenga), i miei lo avevano acquistato con i loro tanto sudati risparmi.
Il merito che aveva avuto mio padre nell’averli guadagnati era pari a quello di mia madre che li aveva saputi risparmiare portando avanti una famiglia monoreddito come la nostra.
Erano quelli gli anni in cui tramontavano le bestie da soma come mezzo di trasporto e di lavoro. Cominciavano ad affermarsi i mezzi a motore.
Le moto, anzi più precisamente, i ciclomotori erano il miraggio della classe lavoratrice, anche perchè gli stipendi non permettevano altro.
Le auto erano ancora troppo costose, in paese se ne vedevano raramente ed appartenevano ai più facoltosi e ai dipendenti statali.
In caso di estrema necessità c’era un signore che le noleggiava, nel senso che ti portava dove volevi in cambio di un compenso da stabilire prima.
Il mezzo di trasporto di mio padre era la sua Ducati Sport 48cc rossa fiammante, che aveva comprato a rate e di cui andava fiero.
La parcheggiava sul marciapiede accanto alla porta di casa in via Pastrengo al n°24 e quando aveva tempo, gli dedicava molte attenzioni manutentive.
Il ritorno di papà era per noi figli il segnale per interrompere il gioco e tornare a casa per la cena.
Per il pranzo non rientrava a casa : la mattina mamma glielo preparava disponendolo con cura nella mandrella che chiudeva annodando a croce i quattro angoli, insieme alla bottiglietta da un quarto di vino con chiusura a scatto con su scritto “Gassosa... Eva Coppa”.
La sera, invece, trovava la cena calda.
Anche se erano appena le sei di pomeriggio, si cenava e guai a mancare, papà diceva che non gli calava se prima non ci vedeva tutti a tavola.
Una sera di settembre dell’anno precedente, arrivò come al solito cavalcando la sua Ducati sport.
Invece di salirla sul marciapiede si fermò accanto a me che stavo giocando a palla avvelenata sul muro di Donna Adelaide e mi fece segno con la testa di saltare in sella dietro di lui.
Lo feci immediatamente lanciando la palla a mio fratello.
Nell’invertire la marcia salutò con il rauco cicalio mia madre che nel frattempo s’era affacciata sulla soglia di casa.
Partimmo ed era evidente che il viaggio era stato concordato in precedenza con mia madre.
I miei genitori erano di quelli che davvero cominciarono con niente, mia madre racconta che appena stabilitisi in paese dalla campagna, non avevano che due sedie ed un tavolino da bar imprestato da una zia di mio padre: zia Carolina che, bontà divina, è ancora in vita.
Le difficoltà affrontate e superate insieme avevano cementato il loro rapporto in modo perfetto e quand’è così servono poche parole.
Ero avvinghiato alla sua schiena, la guancia a contatto con la spessa giubba di pelle che gli era stato regalato dal suo amico Ciro il postino, storico quanto rimpianto personaggio del nostro paese. Di Ciro, quando ero bambino apprezzavo la gentilezza, poi da adulto, la competenza e l’intelligenza che andavano ben oltre il semplice lavoro da postino.
Le Poste Italiane fornivano dei giubbotti per le giornate più dure e lui in qualche modo riuscì a procurarsene uno da regalare a mio padre.
Mai regalo fu più gradito e utilizzato.
Il mondo scorreva veloce davanti ai miei occhi ed il vento rubava parte delle frasi mentre papà parlava ad alta voce muovendo la testa da una parte all’altra indicandomi le cose.
Io, anche se non capivo tutto, annuivo ad ogni sua richiesta di assenso, lo facevo per non dargli dispiacere, mi sembrava da ingrato costringerlo a ripetere.
Abbandonata la strada asfaltata che prosegue per Larino, prendemmo una stradella sterrata dove le impronte lasciate dagli zoccoli dei muli nel fango, ora indurito al sole, facevano sobbalzare e tremare la moto che zigzagava a cercare il percorso meno accidentato ed un equilibrio continuamente da recuperare.
Alla mia più volte ripetuta domanda di dove stavamo andando papà divagava, evidentemente voleva farmi una sorpresa.
L’ultimo tratto lo facemmo stando dritti sui pedalini in modo da facilitare l’equilibrio del mezzo.
Arrivati, chiuse la valvola della miscela, sgasò il carburatore per evitare l’ingolfamento e mise con cura a cavalletto la moto su due sassi piatti raccattati sul ciglio della strada.
Proseguimmo il viaggio a piedi per un sentiero, tenendoci per mano.
Entrammo in un terreno appena arato, chiamò ma non c’era nessuno.
Da principio quasi pianeggiante, diventava poi parecchio scosceso.
Facevo difficoltà a camminare tra le grosse zolle, i gajavoun, sollevati di recente dall’aratro, ma per contro, la serata era fresca e gradevole.
Attraversammo una zona alberata con decine di maestosi olivi varietà ramgnel, salagn,qurnarell, guilva doce e guilva vacc, che mio padre datò essere “giovani”, - non più di ottant’anni – ed ancora, alberi da frutto come ciliegie, percoche, fichi vallaran e prcssott, mele di Sant’Antonio, pere spadon, brutt e bun, cocc d’asn e visciole, vrllngok, gulance e mennl.
Poi ancora altro terreno arato e nuovamente olivi e, questi ultimi, più vecchi dei precedenti.
Tra gli oliveti erano presenti molte viti americane arnasctcc, e questo perché anticamente si usava piantare gli olivi a sckepp, quindi a lenta crescita, in contemporanea con la vigna.
Era un’intelligente espediente per sfruttare il terreno come vigneto in attesa che la dimensione degli alberi, dapprima masql e poi fammn, proibisse con l’ombreggiatura consistente, la vita stessa delle viti.
Il panorama era aperto a sud verso “u foss da mennl” e la valle del fiume Biferno e a nord avevamo tutto il paese che ci sovrastava.
La prospettiva dal basso verso l’alto ne aumentava a dismisura l’imponenza.
Eravamo ormai arrivati in fondo alla valle, mi padre si fermò e ci voltammo ad osservare l’appezzamento nella sua interezza.
La sua estensione era di quattro ettari ed a me sembrava immenso- Che ne pensi? - ed io - penso cosa papà?- lui riprese -Che ne pensi di questa terra?-non trovando altro -penso che è grande,… mi sono stancato a camminare - e lui - senti Giorgio, ti piacerebbe se tutto questo diventasse nostro?-,-scherzi?..certo che mi piacerebbe!- .
Visibilmente sollevato e soddisfatto mi misie la mano sulla spalla e sottovoce sentenziò - Allora diventerà nostro, ma tu dovrai aiutarmi!- ed io più che convinto - certo che lo farò, stai tranquillo papà, ti aiuto io-.
Ecco quella era stata la mia promessa ed ora non potevo certo farmi indietro. Il lavoro a cui dovevamo far fronte in quella calura di Luglio era la mietitura a mano del nostro grano. Come si dovesse fare per me era un mistero ma mi fidavo dell’esperienza dei miei.
La superficie seminata era di circa 2 ettari (20.000 mq), ai miei occhi era una follia affrontarla armati di sola falce ma sia io che i miei fratelli li avremmo affrontati facendo la nostra parte con entusiamo ed abnegazione.
Dopo aver fatto velocemente colazione risalivamo il paese e da petticece andavamo a u’ prtll, dove u fagugn ci nasce.
Lassù il colpo d’occhio era quello del giallo diffuso e si avvertiva fortemente l’odore di frumento che arrivava come messaggero di un’altra giornata torrida da affrontare.
La speranza di tutti era che cambiasse vento del sud, per i disagi fisici che procurava e perché dopo un lungo soffiare di solito portava la pioggia e sarebbe stato deleterio per tutti.
Guai!, il grano si sarebbe “lavato” e perdendo la rosso-bruna lucentezza superficiale, avrebbe perso molto dei pregi nutrizionali e quindi, del suo valore economico.
Lasciavamo il paese alle spalle scendendo i tornanti delle ripide pendici della nostra collina.
Dai pressi della casa laboratorio lanificio “d’ catarr”, ruzzolavamo fino ad incrociare la provinciale asfaltata, per ributtarci a capofitto lungo la scorciatoia che da sotto “Pasqual d’ Nrrcone” porta al “foss da mennl”.
Lungo questo percorso di terra battuta, da percorrere in fila indiana, si incontravano i muli e gli asini che andavano al lavoro nelle campagne.
Sui loro basti poche semplici cose, le bisacce d màlvone con il pranzo, un trufl con il vino e i ccnar pieni di acqua che già sudavano per la differenza di temperatura tra dentro e fuori il recipiente in terracotta.
Haa!...Murrè...Sa,sa,sa!....ih,ih!
Ricordo qualche nome rimastomi in mente grazie alla loro musicalità.
Sono anche dei soprannomi ma li voglio citare ugualmente, chiedendo preventivamente scusa, al solo scopo di far rivivere questi uomini, anche solo per un attimo, nel ricordo di chi li ha conosciuti.
Scendevano in fila indiana alle prime luci del mattino personaggi come Ndonio d cagnapl con due muli dal manto scuro.
Fedel Totr sempre impettito ed amante della conversazione.
Ndonio d Ndrion in groppa al suo mulo bianco screziato ed un altro mulo scarico mentre suo figlio Sandrino preferiva camminare a piedi o al massimo, quando era stanco si aggrappava alla coda.
Zi Ppin d ciucc vicchj e suo figlio Luluc u scarpar con l’asinello più educato del mondo a cui non dava fastidio né la pipa di Zi Ppin né il sigaro del corpulento Luluc.
Zi Ptr Trzan un ometto gentile ed affabile che non aveva bistje ed andava a piedi.
La carovana non si esauriva ancora, comprendeva ancora altre persone che, purtroppo non ho mai conosciuto.
Tutti, ad ogni modo, erano accomunati dal modo sempre garbato con cui rispondevano al saluto che, noi bambini, gli facevamo nel mentre li
sorpassavamo salendo e ridiscendondo il ciglio della strada.
In discesa, eravamo più veloci di loro.
Il nostro terreno aveva un’accentuata pendenza per cui era inaccessibile alle mietitrebbie dell’epoca che non avevano ancora il sistema di autolivellamento quadrilaterale.
Questo dato di fatto ci costrinse alla mietitura manuale ed al successivo trasporto in una zona pianeggiante, l’ar, dove potesse accedere la trebbiatrice per separare definitivamente il grano dalla paglia.
La giornata di lavoro prevedeva l’inizio del taglio a partire dalle cinque di mattina, si procedeva di gran lena sfruttando la frescura notturna fino circa alle 9,30 quando cioè il sole solitamente picchiava duro e non c’era alito di vento a dar sollievo.
Quindi ci si rifugiava sotto l’ombra dei vicini olivi e si faceva colazione.
Dire colazione non è proprio esatto, potremo dire che, senza saperlo, facevamo un breakfast all’inglese, nel senso che si trattata di un vero e proprio pranzo.
Frittata con cipolle, peperoni arrosto, salsiccia di carne e di fegato, capocollo e soppressata.
Formaggio stagionato, ricotta, sott’aceti, frutta, caffè freddo. Il tutto accompagnato dal nostro generoso montepulciano.
Papà ad un certo punto “annusava” l’aria e stabiliva con anticipo e senza mai sbagliare quale vento si sarebbe alzato da li a poco ed avrebbe caratterizzato la giornata di lavoro.
Noi si sperava sempre che fossero voir o tramuntan che sono notoriamente freschi.
Alla prima carezza del vento sul viso si riprendeva a lavorare, era una sorta di campanello silenzioso.
I miei procedevano al taglio rimanendo sempre affiancati e portavano l’anda, sempre allineata.
Naturalmente papà faceva anche un po’ la parte di mamma che non riusciva fiiscamente a stargli costantemente dietro.
Con la mano sinistra selezionava ed abbrancava il fascio del grano da tagliare con un movimento a semicerchio. La mano destra, armata di falce faceva gli stessi movimenti della sinistra ma in maniera speculare, per cui quando si ritreava, la lama affilata recideva gli steli secchi.
Di tanto in tanto papà si fermava, estraeva dalla tasca posteriore a qdarell e, usando uno sputo come liquido di raffreddamento, ravvivava velocemente l’affilatura della falce.
Lo stesso spunto si usava anche per aumentare la presa tra mano e manico.
Lo sputo, un’arma segreta e,credetemi, con l’afa che c’era non era sempre facile trovarlo.
Io avevo imparato a fare le “case” cioè le legatura del manukj realizzato sempre con le fascine di grano.
Le fascine, tagliate precedentemente, dovevano essere tenute sempre umide perché altrimenti, gli steli secchi si sarebbero spezzati quando, con un rapido volteggio andavo a realizzare il nodo centrale.
Tali case erano fatti di grano perchè non essendoci spaghi o legacci, potevano essere buttati tal quali nel vat-tor della trebbiatrice.
Stendevo a terra la case vicino all’anda ed i miei ci riponevano progressivamente le fascine tagliate, fino a quando ritenevano sufficiente al quantità accumulata.
A quel punto prendevano i due capi e stringendo u manukj tra le gambe allo scopo di ridurne al massimo il volume, stringevano ed arrotolavano con un unico movimento realizzando il nodo di chiusura.
Mentre io mi occupavo di costruire altre case, mio fratello Giuliano portava il manocchio ad incrementare il mucchietto a poca distanza che si chiama ekky.
Disponeva i manukj in un cerchio di circa un metro e mezzo di diametro, con le spighe sempre rivolte verso alto, perché, in caso di pioggia le spighe dovevano rimanere distanti dal terreno.
Sviluppava alla fine un cumulo che somigliava ad un igloo dell’altezza di circa un petto d’uomo. Di questi ekky se ne facevano diversi e la loro posizione era sempre vicino all’anda.
Giuseppe, il più piccolo, rimaneva il più possibile all’ombra.
Il suo compito però era ugualmente importante.
Si occupava di portare l’acqua che si trovava nel ccnar , tenuto al fresco sotto un ekky, a chi di noi ne facesse richiesta.
A volte, per evitare di perder tempo, arrivato il ccnar si beveva tutti, così per un po’, non ci sarebbero state interruzioni e Giuseppe limitava i suoi viaggi sotto il sole.
Si andava avanti così fino circa all’una, poi nuova sosta collettiva all’ombra degli olivi.
Era festa, si consumava il pranzo e la fame non mancava. Poi stesi su delle vecchie copertine, si compiva un’altro momento magico.
Si dormiva, sì, proprio così, si dormiva sotto gli alberi, fino alle quattro del pomeriggio.
La notte si dormiva poco, la mattina ci si alzava presto, il lavoro era faticoso e in condizioni disagiate per cui non era difficile cedere al sonno.
L’invito di mamma era quello di riposare ma si sa come sono i ragazzi.
Anche solo per il gusto di trasgredire all’ordine, si prendeva a darsi fastidio a vicenda dapprima con il solletico con la pagliuzza nell’orecchio o nel naso, poi con il lancio furtivo delle olive e per finire con il solletico sotto i piedi.
Alla fine il tempo del riposo si accorciava drasticamente.
Se però accadeva di prendere sonno, anche per poco tempo, al risveglio ti scoprivi smarrito e fuori dal tempo.
Aprivi gli occhi sulle fronde degli alberi e impiegavi del tempo a ritrovare la tua dimensione e ricollocarti nel tempo e nello spazio.
Una sensazione insieme di sgomento e di piacere che anche oggi provo quando mi capita di dormire all’aperto.
Il campanello muto suonava alle quattro e un quarto nella testa di papà e da allora in poi si lavorava di buona lena e senza sosta, rinfrancati dalla frescura serale.
Si smetteva solo quando papà lo decideva e cioè quando non vedeva più e rischiava di tagliarsi con la falce.
La millenaria cultura contadina insieme alla saggezza esperienzale che ne è substrato di riferimento mi si rivelò attraverso l’esempio dei miei genitori e mi sentii parte di questo mondo a tal punto che per lungo tempo lo credetti il solo possibile.
Oggi continuo a credere che sia il solo dove un uomo può essere se stesso.
Se la morte per Totò, nella famosa “livella”, era l’appianamento di ogni struttura umana preconcetta, la vita in campagna è il banco di prova della sostanzialità degli uomini.
Quel mondo agreste, in apparenza immutabile, era per i miei era un libro aperto.
Entrambi ne facevano parte anche se, da quando si erano stabiliti a Guglionesi, mia madre aveva fatto la casalinga e mio padre si impiegato prima in edilizia e poi, definitivamente, nell’industria di estrazione materiali inerti dal letto del Biferno, luogo in cui, ebbe l’incidente che lo portò prematuramente alla morte.
Conoscevano i nomi dei venti u fagugn, l’astr,a vojr,a tramuntan, u scrocc e riuscivano a prevederne le sospensioni o i cambiamenti di direzione.
Di giorno leggevano l’ora dalla posizione del sole e di notte lo facevano in base alla posizione dei tre bastoni .
L’alba, i colori dei tramonti, i venti, u lak intorno alla luna e il volo ed il canto degli uccelli, fornivano loro le previsioni meteo.
Era un mondo bellissimo ed affascinante in cui non c’era spazio per la noia e dove tutti avevano un proprio spazio e proprie occupazioni.
Io avrò avuto non più di 14 o 15 anni ed i miei fratelli Giuliano e Giuseppe a scendere con un intervallo di circa tre anni l’uno dall’altro. Eravamo quindi piccoli ma, in quel mondo semplice impostato sull’autoaiuto avevamo tutti delle potenzialità da mettere in gioco.
Ognuno di noi aveva un compito da assolvere e contribuiva in modo fattivo al raggiungimento dell’obiettivo che la famiglia si era dato.
Quello che si succhiava dal ccnar che passava di mano in mano non era solo acqua ma la vita stessa.
Per quella prima ed ultima esperienza di mietitura a mano non finirò mai di dire grazie ai miei genitori e porto per sempre scolpite nel cuore la bellezza e gli insegnamenti che me ne derivarono.
La fatica è solo un ricordo sbiadito mentre i colori della gioia rimangono vividi e con il tempo, si accentuano ancora di più.
Una vita a misura umana è una vita semplice, spesa con chi si ama, tesa a raggiungere un fine comune e condiviso.
Il resto sono solo chiacchiere.


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