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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 21/12/2010 ● Click 1459

La precarietà giovanile e la nuova dimensione del tempo


Pietro Di Tomaso © FUORI PORTA WEB

Una società che non ama i suoi giovani è una società che non ama il futuro. I giovani oggi rappresentano una categoria tenuta “fuori dai giochi”, una risorsa preziosa della società lasciata senza voce, ignorata da una generazione adulta come quella attuale un po’ (molto?) egoista e autoreferenziale. La sfiducia dei giovani è un sintomo di una crisi non tanto “esistenziale” quanto “culturale”, da riferirsi al fatto che la nostra cultura conosce come unico generatore simbolico di tutti i valori esclusivamente il denaro, da conseguire con ogni mezzo, ivi compresa la condizione del “prendere o lasciare” in mancanza di potere contrattuale. Perché – come osserva Umberto Galimberti, docente presso l’università ‘Ca Foscari’ di Venezia - chi non è “mezzo di profitto”, sia che si tratti dell’immigrato o di uno qualunque di noi che lavora in una fabbrica o in un ufficio a qualsiasi condizione gli venga imposta, non ha diritto di cittadinanza. E tutto questo perché l’economia globalizzata ha reso concorrenziale anche il costo del lavoro sempre più al ribasso.
Ciò detto, dove volge lo sguardo dei governanti? Della mancanza di futuro dei giovani al momento si occupano in pochi e ai problemi del nuovo sistema produttivo-contrattuale vengono dedicati studi approfonditi da parte degli esperti (vedi l’economista Tito Boeri e il giuslavorista Pietro Ichino, per citare), ma rimangono confinati nell’ambito degli addetti ai lavori. Poi c’è il grande problema dei ricercatori italiani costretti ad espatriare per mancanza di prospettive in Italia.
Ignazio Marino – medico e senatore – denuncia che “la straordinaria carenza di finanziamenti riflette la scarsa importanza che da noi si dà alla ricerca come strategia dello sviluppo di tutta la società”. In America, dove non solo la ricchezza ma anche la crisi è assai più grande che da noi, nel 2011 saranno spesi in ricerca 30 miliardi di dollari (25 miliardi di euro) pari alla nostra intera manovra finanziaria. Molti studenti italiani pensano che tutta la politica di questo governo sia premeditatamente rivolta a impoverire l’istruzione pubblica per favorire quella privata e che la mancanza di programmazione nell’insegnamento pubblico equivalga ad ammazzarlo. Così l’istruzione tornerà privilegio di ceto (in barba alla nostra Costituzione vigente). La rivolta di gran parte dei giovani è dunque una ribellione anche di carattere sociale e nasce da un disagio reale (molti di essi sono stati definiti come appartenenti alla “web class” e sono al penultimo posto in Europa per garanzie di occupazione). Ai giovani – secondo il filosofo Giacomo Marramao – è stata tolta la dimensione del tempo storico lineare garantito. Con la conseguenza che ogni atto che cada come sale sulla loro ferita crea quella che Machiavelli chiama l’ “occasione” e i greci avevano chiamato ‘kairòs’: la nuova dimensione del tempo, sussultorio, violento, che altera i comportamenti individuali normali, trasformandoli in rabbia, rottura, come ha fatto la fiducia al governo, piovuta nel mezzo della protesta anti-Gelmini. Naturalmente è anche un problema di classe dirigente. “Francamente non si capisce perché - sottolinea Federico Orlando (Europa, 18 dicembre) – non solo il PD ma tutte le opposizioni non abbiano chiesto… almeno una pausa di riflessione sulla riforma, sollecitandone il rinvio di qualche settimana; e non si capisce perché rettori docenti ricercatori precari studenti non abbiano promosso per tempo una conferenza nazionale dell’università, per avanzare un’autonoma proposta di riforma. Eppure, in tutti i rami dello studio, ci sono nelle università punte di altissimo valore”. E’ sperabile pertanto che in futuro ci si coordini meglio.
Tornando ora al tema della precarietà, in termini più generali, trovo pertinente chiedersi: come si fa, oggi, a rimettere al centro l’uomo e non solo il profitto? L’indicazione del filosofo Franco Totaro in ‘Non di solo lavoro’ è quella di cambiare i profili lavorativi, pensando non solo al lavoro come “produzione”, ma anche e soprattutto al lavoro come “servizio”, di cui la nostra società sente un gran bisogno, a giudicare dal gran numero di persone che si dedicano all’assistenza e al volontariato. Si tratta di profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento finanziario, se l’economia non pensasse solo alla produzione, ma anche ai servizi per la persona e alle relazioni tra le persone. In questo scenario forse viene prefigurato anche il segreto di una maggiore felicità sociale, che certamente non è data dall’ultima generazione di automobili o di telefonini, come la pubblicità cerca di farci credere. Infatti tra i pubblicitari nessuno desidera la nostra felicità, perché la gente felice non consuma.


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