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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 1/8/2009 ● Click 3518

Veglia funebre [parte II]


Domenico Aceto © FUORI PORTA WEB

Fuoriportaweb pubblica, in esclusiva "prima nazionale", la seconda e ultima parte del racconto "Veglia funebre" di Domenico Aceto.

Domenico Aceto
Veglia funebre

Parte II

Qui comincia la seconda parte della sceneggiata che va avanti per qualche tempo. Ad un certo punto, una delle presenti, nel tentativo di sedare la discussione, lancia un «Salve Regina…». Ma deve recitarselo da sola, poiché le due cognate e la figlia-nipote sono scatenate.
Ma dove non riesce la preghiera, riesce la pasta asciutta. La lite infatti cessa immediatamente, non appena alle orecchie delle contendenti arriva il brusìo che annuncia l’arrivo del consòlo. Un’amica intima della signora Maria ha pensato bene di inviare da mangiare a quelle anime affrante che devono affrontare la veglia.
Per discrezione, la grossa cesta con il cibo viene portata nel cucinino attiguo alla camera ardente, dove i parenti del defunto andranno, uno alla volta, discretamente a rifocillarsi.
La signora Maria, ogni tanto dà una sbirciata a quella grossa cesta in cui, fra gli altri recipienti, troneggia una zuppiera con la pastasciutta.
Ad un tratto vede Mingo, il gatto di casa, saltare sulla tavola e, dopo aver annusato un po’ ovunque, rivolgere la sua attenzione alla zuppiera. Con una zampa, riesce a scostare il coperchio e comincia a tirar fuori, uno alla volta, i maccheroni, che mangia con tutta tranquillità.
Non potendo intervenire, per non mostrare interesse per le cose terrene in questo momento d’immenso dolore, la signora Maria comincia a cantilenare una nenia funebre, nella speranza che qualcuna comprenda il messaggio: «Dammuccio mio, te ne sei andato!».
E le donne in coro: «Te ne sei andato!».
Poi, rivolgendosi al gatto e, alludendo ai maccheroni, riprende: «O Mingo, te li stai tirando uno a uno».
E il coro: «Uno a uno».
Poiché nessuna delle presenti comprende, il messaggio diventa più esplicito: «Scacciate via Mingo che sta mangiando i maccheroni».
Ma le donne, senza fare attenzione al significato delle parole, infervorate, ripetono: «Che sta mangiando i maccheroni».
A questo punto comare Maria è costretta ad andare in cucina a bere un bicchiere d’acqua e cogliere così l’occasione per scacciare quel gatto impertinente e affamato.
Intanto, attorno al morto si discorre della guerra, dei brutti tempi presenti, della roba che trovi solo al mercato nero eccetera.
«Sapete cosa ha chiesto per un ago Pasquale il merciaio?» dice una, creando in tutte una legittima suspense. «Due polli!» E, vedendo le ascoltatrici sgranare gli occhi per lo stupore, ribadisce: «Proprio così, due polli belli grossi!».
«Mio cugino che fa il militare a Roma», racconta un’altra. «E’ andato a comprare un paio di scarpe per la fidanzata e, quando ha tirato fuori i soldi per pagare, il negoziante gli ha detto: «Che me ne faccio della carta? Mica la posso mangiare? Per avere queste scarpe, mi devi dare una pagnotta di pane. Vi rendete conto? Un paio di scarpe di lusso per una pagnotta di pane».
«Eh!» sottolinea una donna anziana. «Siamo tornati al tempo del Sessanta (si riferisce al 1860). Queste stesse cose le ho sentite raccontare da mia nonna, buonanima.»
Mentre nella stanza del morto si svolgono questi discorsi, nell’ingresso gli uomini parlano di semina, di raccolta delle olive e della mano d’opera che manca a causa della guerra.
Mentre discorrono di queste cose, arriva il nipote di comare Maria, accompagnato da un commilitone. Sono entrambi in camicia nera. Costoro, grazie ad amici influenti, sono riusciti ad evitare il fronte e difendono la patria prestando servizio nella DICAT, la Difesa Contraerea Territoriale, inquadrata nella Milizia, a 50 metri dalle proprie case.
Vedendoli entrare con le divise fasciste, Cola il Rosso ha uno scatto di collera ed esclama: «Qui si piange un morto, non ci si prepara per una parata».
«Come siete suscettibili voi socialisti», ribatte il giovane nipote di comare Maria. «Il nero vi fa proprio star male.»
«Li fa andare di corpo», interviene l’altro giovane, alludendo all’olio di ricino e abbozzando un sorrisetto d’intesa.
«Però in Africa e in Russia, ad andare di corpo siete voi!» ribatte il battagliero socialista.
Punto sul vivo, il nipote di comare Maria riprende: «Fra poco vedrete quello che succederà. Ora ha preso “Lui” il comando delle forze armate (Lui è Mussolini) e voglio vedere come faranno ora i bolscevichi amici vostri e quegli smidollati di inglesi e americani». Poi, con tono sprezzante aggiunge: «E’ gente che non vale nulla. Pensate che gli inglesi, a furia di mangiare cioccolata, hanno tutti i denti fradici». Quindi, aprendo la bocca e mostrando con spavalderia i propri denti, prosegue: «I nostri denti possono rompere le pietre».
E Cola il Rosso di rimando: «E solo le pietre possono rompere, perché il pane non ce l’abbiamo».
«Siete i soliti disfattisti. Ma, sistemate le cose fuori, ripuliremo anche casa nostra.» Ribatte il giovane con arroganza. Quindi, rivolto agli altri presenti, prosegue: «E’ solo questione di tempo. I tedeschi stanno mettendo a punto un’arma segreta che in poco tempo risolverà la guerra in nostro favore. Dobbiamo solo fare qualche altro piccolo sacrificio ma, alla fine, la vittoria sarà nostra».
«Porcaccia miseria!» esplode il Rosso, che ormai nessuno può più frenare. «Finora i sacrifici li hanno fatti solo i poveracci. A me hanno requisito l’unico mulo che avevo, mentre al podestà che, fra muli e cavalli ne ha ben otto, non ne hanno preso neppure uno. E le stesse porcherie hanno fatto quando hanno requisito il ferro e il rame: a me per poco non portano via l’aratro e la zappa, mentre i caporioni fascisti continuano a tenere ringhiere di ferro ai giardini.»
«Noi siamo sempre i primi a sacrificarci per la patria», interviene l’altro giovane fascista.
«Lo vedo come vi sacrificate!» risponde il Rosso. «Mentre tanti poveri disgraziati muoiono in ogni parte del mondo, voi fate la guerra a cinquanta metri da casa vostra.»
«Il nostro è un posto di grande responsabilità», precisa il giovane. «Noi difendiamo le case, le donne e i bambini.»
«E per questo enorme sacrificio, ogni quindici giorni prendete una licenza premio di cinque giorni più due di viaggio che occorrono per percorrere 50 metri», aggiunge il Rosso.
Per arrestare questo battibecco che rischia di degenerare, gli altri presenti cercano di intervenire, introducendo altri argomenti. Alla fine, anche per rispetto al morto, torna la calma. Il discorso scivola allora sulla caducità delle cose.
«Compare Dammuccio ha finito di tribolare. Ora sta davanti a Dio che lo giudica», dice uno dei presenti.
Cola il Rosso, che non si è potuto sfogare a modo suo, a queste parole riprende a inveire prendendosela con tutti, anche con l’Onnipotente, e ribatte: «Quando sarò davanti al Padreterno io, voglio prenderlo a calci negli stinchi. Dovrà essere lui a rendere conto a me. Mi dovrà dire perché in questo mondo schifoso mi ha fatto solo penare, mentre ci sono tanti che fanno una vita comoda e senza preoccupazioni. E in più riceveranno anche la ricompensa, poiché non peccano, in quanto non hanno motivo di imprecare. A peccare sono i poveri disgraziati, perché, quando non possono dare da mangiare ai propri figli, se la prendono con tutta la corte celeste». E qui, giù una sfilza di Madonne, santi, beati e tutti i cori angelici.
A frenare Cola, ormai scatenato, è la moglie che, entrata per prendere un bicchiere d’acqua e udendo le bestemmie del marito, si fa un segno di croce ed esclama: «Pezzo di scomunicato. Quello che tu vuoi prendere a calci, ti dovrebbe far cadere la bocca».
«Anche senza bocca, i calci glie li darei lo stesso», ribatte il vecchio Cola, tirando fuori la tabacchiera per arrotolarsi una sigaretta.
Ora che si è sfogato, sta meglio. Così, tra liti e recite di rosari, pisolini e discussioni varie, passa la notte.
Ad annunciare il giorno è la voce baritonale di Mingenzo lo spazzino, che, come ogni mattina, all’alba, mentre scopa, canta a squarciagola tutte le canzoni del suo repertorio, incurante del disturbo che può arrecare a chi dorme ancora.
Subito dopo, qualcuno porta del caffè. E’ fatto con la cicoria, poiché il caffè vero non si trova più. Quella bevanda insipida, ma calda, sveglia tutti e riprendono i lamenti, che aumentano d’intensità all’arrivo di ogni nuovo venuto.
Si cominciano allora a tessere le lodi del defunto. La sorella è la prima, che rivolta al morto dice: «Ti ricordi quando siamo andati alla fiera di Larino e faceva quel gran caldo? Tu sei andato a comprare una granita per farmi dissetare».
E tutte a commentare: «Era veramente bravo».
Un’altra aggiunge: «Una volta che non mi trovavo i soldi per pagare una risuolatura di scarpe, mi ha detto: “Non ti preoccupare comare, me li darai quando ce li avrai”».
Il coro delle presenti conferma: «E’ stato sempre comprensivo». La moglie invece dissente: «E’ stato sempre fesso. Per questo motivo non abbiamo accumulato denaro».
«E’ stato fesso a dare tanta baldanza a te.» Risponde la sorella del morto, pronta a iniziare un nuovo battibecco.
Per evitarlo, una delle presenti, si rivolge a comare Maria ricordandole di mettere in tasca al morto l’obolo per l’aldilà.
Distratta da questa incombenza da espletare, comare Maria lascia stare la cognata e chiede: «Quanto bisogna mettere? Bastano due soldi?».
«Meglio quattro», risponde una delle presenti. «E’ vero che non c’è una tariffa stabilita, ma se uno porta un buon obolo, qualche riguardo lo riceve. Quando è morto don Clemente, gli hanno messo addirittura 5 lire.»
Questo discorso fra le donne, viene ascoltato anche da Cola il Rosso, che si era portato sull’uscio della camera del morto per dare un’altra occhiata all’amico. Nell’udire di don Clemente, un possidente locale prepotente e dispotico, esplode: «Corpo della Maiella! Cosicché quello schifoso di don Clemente non solo ha succhiato il sangue della povera gente da vivo; anche da morto ottiene dei riguardi, poiché può pagare».
«Non dico questo», precisa la donna, «dico soltanto che è meglio dare un buon obolo.»
«Allora», incalza il Rosso, «un poveraccio che non ha neppure un centesimo per cavarsi un occhio non viene traghettato?» Poi, calmandosi, aggiunge: «Ma ditemi un po’: cosa ne fa il traghettatore di tutti i soldi che riceve? Deve averne accumulata una montagna. E prima che non c’erano i soldi, cosa portavano i morti di allora, le pietre?».
«Non portavano certo un’animaccia nera come la tua!» Risponde la moglie che è l’unica che può tenergli testa. Ma Cola, autoritario le ingiunge: «Quando morirò io, non voglio monete con me. Chiunque ci sia di là, se mi vuol portare, bene, altrimenti resto dove mi trovo. Vorrà dire che non sarò né di là né di qua».
«Se morirò dopo di te», risponde la moglie con aria di sfida, «ti metterò un’immaginetta sacra in ogni tasca e quattro o cinque rosari.»
La discussione fra i due coniugi viene interrotta da una donna che ricorda di mettere, assieme alla moneta anche un pezzo di candela, benedetta il giorno della Candelora: servirà a illuminare la via dell’aldilà.
Cola, che ironizza su tutto, aggiunge: «Bisogna sperare che non ci sia vento».
Verso mezzogiorno, vengono i preti per portare il defunto in chiesa. Alla loro vista, la figlia di compare Dammuccio, pensando all’imminente definitivo distacco, prorompe in un accorato grido: «Ecco i preti. Ora portano via tata!».
Assieme ai preti, arrivano anche gli addetti delle pompe funebri. E, mentre stanno per chiudere la bara, dall’ingresso si ode una voce che grida: «Un momento, non chiudete la bara!». E’ una giovane donna che porta in mano un cappello.
Quando giunge vicino al morto, si rivolge alla vedova e dice: «Scusa comare Maria, ma devo chiedere a compare Dammuccio di farmi un piacere. Come sai, dieci giorni fa, è morto mio padre e, nella confusione dei funerali, ci siamo dimenticati di mettere il suo cappello nella bara. Non voglio che all’altro mondo resti a testa scoperta, perciò vorrei pregare tuo marito di portarglielo, visto che si trova ad andare da quelle parti».
A un cenno affermativo di costei, la nuova venuta, rivolgendosi al morto, dice: «Compare mio, questo favore me lo devi proprio fare. Dì a mio padre che ci perdoni, ma ci siamo proprio dimenticati. Per fortuna, grazie a te, senza cappello è rimasto solo per pochi giorni».
Detto ciò, mette il cappello vicino a quello del defunto, posto vicino ai piedi.
Prima che sigillino la bara, con un eccesso di zelo aggiunge: «Quello marrone è di mio padre. Mi raccomando compare, non sbagliare!».
A questo punto, è la figlia del morto che, seccata, tronca netto: «Ora mio padre è anche rimbambito. Non è più nemmeno capace di riconoscere il suo cappello». Quando la bara viene presa per essere portata via, i pianti raddoppiano e si rinnovano le raccomandazioni: «Ti prego compare, porta i saluti a papà».
«A zio Nicola.»
«A mamma.». E a tutta una sfilza di paesani defunti.
Ma in mezzo a questo vociare e richieste varie, alta e squillante si leva la voce della figlia del morto che, sovrastando tutte le altre, fa un’ultima accorata raccomandazione: «Tata mio, fatti i cazzi tuoi, non portare i saluti a nessuno».
Con quest’ultimo ammonimento, compare Dammuccio inizia la sua vita da defunto. E in tutti c’è la convinzione che egli soddisferà i loro desideri.
[Fine]
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A dicembre dell'anno scorso il Centro Culturale Firenze-Europa “Mario Conti”, nell’ambito del XXVI premio Firenze, nella sezione “Racconto inedito” ha premiato con la “segnalazione d’onore” il racconto “Veglia funebre” di Domenico Aceto, originario di Guglionesi. La motivazione della giuria del Premio Firenze è la seguente: “La veglia funebre ad un concittadino prematuramente scomparso offre all’autore il palcoscenico ideale per ritrarre personaggi schiavi, pesino in un momento così drammatico, delle proprie meschinità e piccinerie, in un racconto spassoso e al contempo tremendamente vivido e realistico”.
"Su suggerimento del critico della Mursia - ha dichiarato a fpw Domenico Aceto in un articolo pubblicato il 9 dicembre 2008 - ho inviato uno dei racconti che intendo pubblicare al premio Firenze Europa, il racconto intitolato “Veglia funebre”. Con mia grande soddisfazione mi è giunta la comunicazione che il racconto era stato premiato con la “segnalazione d’onore”. Il racconto prende lo spunto da un fatto reale per evidenziare i contrasti politici in un periodo difficile, quale era quello della guerra, e nello stesso tempo vuole mostrare la meschinità e l’egoismo evidenziati anche in momenti tanto drammatici. Vuole inoltre tramandare le tradizioni legate alla civiltà contadina e che oggi sono quasi del tutto scomparse".


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