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Caro DirettoreGuglionesi
Pubblicato in data 29/3/2022 ● Click 1053

L’età del legno, un materiale ed un’epoca che ancora oggi ci accompagnano


Arcangelo Pretore © FUORI PORTA WEB

Seguendo una cronologia storica le tappe della civiltà, nei millenni trascorsi, si sono snodate conciliando due caratteristiche dei materiali utilizzati : la loro durezza e la loro reperibilità nell’ambiente di vita . Pertanto , in modo elementare ed incompleto nella nostra formazione scolastica ricordiamo l’età della pietra , l’età del bronzo , l’età del d ferro ; la loro successione cronologica dà conto della comparsa dei metalli nella storia delle civiltà umane . Ma, com’è nostra consueta esperienza, l’uomo ha utilizzato, secondo la propria necessità e convenienza in modo contestuale all’uso della pietra e dei metalli anche altri materiali ; anzi, da tempi remoti in modo preminente si è servito del legno : una materia prima facilmente reperibile nell’immediato intorno del territorio , nomade o stanziale che fosse .Tuttavia, nonostante , sia nella lunga epoca preistorica che in epoca storica , forse , per la sua durata limitata (d’altronde il legno, staccato dall’albero è materia organica morta ) , nella storiografia ufficiale, dell’età dell’umile legno non c’è traccia. Eppure i ritrovamenti paleontologici , benché siano scarsi , poiché il legno è un materiale è facilmente deperibile , insieme alle più recenti ricerche antropologiche ci offrono la prova provata del suo indispensabile e diffuso utilizzo , poiché ,a tutt’oggi , alcuni dei nostri scimmieschi cugini antropomorfi che vivono nelle foreste lo usano per costruire ricoveri tra i rami alti degli alberi ; ciò a riprova che nella nostra lontana preistoria siamo stati a lungo animali arboricoli . L’essere stati arboricoli è stata una condizione facilitata dall’ avere le dita delle mani prensili motilità che ha permesso di stabilire un legame stretto con il legno e con le sue peculiarità : la flessibilità dei rami degli alberi ha consentito all’uomo primitivo perfino un effetto elastico di rilancio nel passare da un ramo all’altro ; la sua consistenza e resistenza , saggiata ad intuito , poteva dare un valido sostegno ed efficacia al suo peso corporeo . L ‘altezza dal terreno dei rami intrecciati a mo’ di nido infatti garantiva al dormiente un più sicuro riposo notturno evitando l’insidia degli animali carnivori che nottetempo si aggiravano nella foresta . Sceso dagli alberi , sperso nella savana, l’uomo antico utilizzando pali infissi nel terreno ha iniziato a realizzare manufatti abitativi aventi una struttura portante in legno . In genere costruiva capanne rotonde che avevano per cielo un tetto di cannucce frammiste a creta . Le prime armi ,che lo ponevano ad una certa distanza di sicurezza dagli gli animali da cacciare o da cui difendersi : lance , archi e frecce, nonché i primi attrezzi da lavoro ( un’agrilogistica sì elementare , ma pur sempre preludio , prima dell’artigianato , poi dell’industria) avevano aste e manici in legno, benché il taglio , ad esempio dell’ascia, fosse in pietra selce . Anche : slitte , ruote e carri da traino venivano realizzati con il legno stagionato . Non è trascurabile il fatto che ad alimentare il fuoco acceso sull’aia per tenere di notte lontane le fameliche fiere o per riscaldare le persone raccolte all’interno della capanna intorno al focolare domestico , da ardere per la cottura del cibo fosse ancora la legna raccolta nel territorio circostante l’unico combustibile utilizzato . Pertanto è tacito che per alcune decine di migliaia di anni gli albori della civiltà furono segnati , anzi ,furono propiziati dal legno : un’età che ha accompagnato le più e meglio conosciute successive età , più stabilmente costruttrici della nostra civiltà : l’ età dei metalli che, purtroppo , com’è accaduto per tutte le scoperte di non poche materie prime, non sono stati utilizzati solo per scopi pacifici come la realizzazione del vomere (‘ a votaracchjia ) in ferro battuto dell’ aratro , la zappa , la vanga, i ferri degli zoccoli del cavallo … ma , per larga parte ,sono stati forgiati , martellati a caldo per scopi bellici : spade, pugnali , lance, punte delle frecce … ed anche per la realizzazione dei cerchioni delle ruote in legno dei carri , troppo soggette per attrito ad un rapido, sfaldante logoramento . A tal riguardo d’altronde è ricorrente nella cronistoria guerrafondaia umana la consolidata locuzione: “mettere a ferro e fuoco” un villaggio conquistato ( accade purtroppo nuovamente oggi , nell’antropocene , accade in Ucraina le cui città vengono irrimediabilmente martoriate, quasi rase al suolo, dal ferro dei carri armati e dal fuoco delle bombe ) . Questo è il prologo , aperto a più aspetti di indagine , allo scopo di restituire dignità e peso storico ad un bene materiale che con il suo tepore (indispensabile nel nostro passato prossimo ,irradiato dal suo ardere quotidiano a vista nei focolari domestici , rendeva necessaria la viciniorietà delle persone, favorendone la socialità . Le abitazioni, che di necessità, dovevano avere almeno un fuoco domestico , contribuivano indirettamente a fornire a coloro che amministravano il territorio una stima numerica delle famiglie che l’abitavano . Infatti , in un non lontano passato, il numero dei focolari in Italia e, il numero degli affacci delle finestre in Francia , venivano computati per avere una approssimativa statistica della popolazione residente e, in modo non secondario , i dati in tal modo raccolti venivano utilizzati per tassare le famiglie dell’agglomerato urbano . Ed in ragione dello stretto connubio tra abitazione e focolare nelle comunità che utilizzavano la legna come primaria fonte di energia è sempre valso il principio ecologico , oggi inutilmente riscoperto, poiché in sostanza l’assunto rimane purtroppo teorico : riscaldare le persone , non gli ambienti ! E, perfino nel nostro passato prossimo , la gente , nell’immediato dopoguerra , quando ancora in casa non c’era l’acqua corrente e quindi neppure le caldaie che potessero spingere l’acqua calda nei termosifoni , che erano ancora di là da venire, ha abbondantemente usato cataste di legna che al tempo della loro larga mercificazione si misuravano “ a canna”.. Se oggi, proviamo a ritornare indietro con la memoria e ci soffermiamo sul mobilio degli interni delle abitazioni dei nonni , certamente saremmo colpiti dalla frugalità dei pochi mobili che l’arredavano ( aspetto costruttivo di cui oggi nella realizzazione di mobili in legno massello si è riappropriata la cosiddetta, ricca manifattura dell “ arte povera” ). E, solo qualche decennio fa , entrando in una comune abitazione del centro storico si era solito intrattenersi in cucina : un ambiente sufficientemente ampio che tuttavia scontava un arredo minimale ; spesso nel vano occupava buona parte di una parete a lato o a fronte l’unico mobile a giorno di qualche impegno : la cristalliera, che descriverò più avanti . Centrale ed immancabile per la sua funzione era invece il manufatto del focolare domestico al cui interno , tra il termine della cappa ( una sovrastruttura atta a convogliare i fumi che alla base spesso poteva avere a mo ‘ di mensola una massiccia annerita breve trave in legno ) e l’inizio della canna fumaria, c’era infisso un ferro traverso a cui attaccare con un gancio una catena ad anelli grandi alla cui estremità libera a cui appendere “ u callar”: un capace paiuolo di rame annerito dalla fuliggine che pendeva al centro a media altezza dal piano del focolare . Tale era l’importanza “du callar” per la cottura della pasta che è rimasto ancora in uso tra i guglionesani “d’antan” ( leggasi di tanti anni) , verso mezzodì , quando ci si accomiatava dal gruppo amicale per rincasare dopo la salutare e distensiva passeggiata a Fuoriporta , a Castellara … che veniva spontaneo congedarsi con l’espressione : “eja ji a ‘ppen u callar “. I carboni accesi della legna che ardeva vivace sul piano di fuoco ( ricordo , quando andavo a trovare i nonni che nella loro breve aspettativa di vita , resistenti ai cambiamenti seguivano ancora le antiche consuetudini del rito vestalico del fuoco , tenuto per un lungo sereno , interminabile tempo quotidiano sempre acceso , benché negli avvicendamenti generazionali dei nuovi più moderni contesti familiari filiali, in cucina già erano comparsi i fornelli a gas ) alimentavano una piccola squadrata “ fornacella “sulla quale all’interno di un pentolino sfrigolava a lungo un invogliante - poiché era gustoso - sugo rossiccio . Il fuoco non appena accennava a spegnersi , con solerzia veniva ravvivato dalle pronte ,alterne , efficaci soffiate del nonno , insufflate , a pieni polmoni , attraverso la media canna di ferro, schiacciata all’estremità della punta , du” schushafuc” . E , in un cantuccio, a lato del focolare , dove non crepitava direttamente la fiamma e, copiosa , a fine giornata si accumulava la cenere calda , c’era la pignatta che, con l’ardore del fuoco , per ore ed ore borbottante , faceva cuocere i fagioli o i ceci . La pignatta , un rustico e panciuto bollitore di terracotta al cui interno anche per effetto dell’emolliente preparatorio cucchiaino di bicarbonato , ribollivano i legumi nel’acqua di cottura formando in superficie una densa schiuma bianca che di tanto in tanto la nonna schiumava con un cucchiaio di legno ( il ferro altera il sapore dei cibi in cottura ), rimescolando, con fare delicato per mantenere integri i fagioli , la massa addensata al fine di uniformarne la cottura . E, a mente della diffusa consuetudine delle famiglie guglionesane di raccogliersi a sera intorno al camino ( magari marinando i ceci, quando si disponeva della sabbia marina ) : una socializzante consuetudine che specie alla sera in paese uniformava i vissuti fa miliari , di cui per certo ( con il suo esserci nell’ ambiente , la pignatta, anticipava, alla grande, la relazionalità quantistica della fisica attuale!) era testimone “senziente “ l’onnipresente pignatta di coccio, tant’è che dal contesto conviviale : ”oggetto ,verso>> persone “ e viceversa , si può trarre un detto guglionesano tuttora in auge : “ i guajj da pgnet ‘l sà a qqucchier “: un motto denso di un “sapere antico” di cui provo a dare un’interpretazione personale : in genere, dei guai e delle peripezie familiari si raccontava a bassa voce, in modo grave e pacato soprattutto nelle fredde sere invernali quando ci si raccoglieva intorno al focolare domestico per cui , per associazione ed in quanto testimone involontario : delle scottature che si prendevano nel crogiuolo della vita vissuta ne è a conoscenza il cucchiaio che rimescola i legumi nella pignatta!?. In quel vano , in cui, specie le donne di casa trascorrevano larga parte del tempo quotidiano non era raro vedere a lato del camino, appese ai chiodi della parete, una batteria di pentole , pentolini e anfore di rame di diversa forma e capienza , luccicanti per il continuo lucidante strofinio cui spesso , benché inutilizzati , erano vigorosamente sottoposti . E, prima che le abitazioni guglionesane potessero essere servite dalla rete idrica domestica ( e fognaria, non so perché in passato ed ancora oggi erroneamente ed ingenuamente associate , soprattutto nei tratti stradali esterni ), nell’angolo meno trafficato della cucina non poteva mancare la panciuta anfora di terracotta a forma di otre ; “ a cantr”, che aveva la capacità di una salma d’acqua , grosso modo il contenuto di due barili ( circa settanta litri , come la salma di un uomo medio , purtroppo ,in quanto salma , deceduto ), riempiti alla fonte de “i cannell”, a “foent nov”... Rifornimenti d’acqua fresca che quasi ogni settimana il capofamiglia o l’acquaiolo portava in casa a dorso di mulo, di cavallo… con due barili gocciolanti assicurati al basto , subito sversati nella “cantr” che spesso a chiusura dell’orlo aveva un tondeggiante coperchio di legno sul quale era poggiata un’anforetta di rame : “u manir” ( facile da rendere, si prendeva con la mano! ). Il rame è un antibatterico (e anche un antimicotico), proprietà disinfettanti magari ignote a coloro che l’utilizzavano ; tuttavia il suo uso abituale rappresentava un modo efficace per sterilizzare l’acqua di fonte , di pozzo . In territorio abruzzese, in passato , per sondare la potabilità dell’acqua veniva rilasciata nel pozzo un’anguilla ( l’anguilla, come la trota… è un sensibile indicatore biologico ) ; se la si vedeva sgusciare in profondità era segno che l’acqua era potabile , si poteva attingere a secchiate: una modalità che consisteva in abili, rapidi prelievi di acqua di pozzo che osservavo incuriosito non solo per l’immediato , schizzante , sordo impatto del secchio di metallo con l’acqua , ma soprattutto per l’accorgimento adottato dall’acquaiolo di fissare al bordo dell’orlo del secchio, in genere , un ferro di cavallo usurato che facendo pendere il peso del secchio verso il basso ne facilitava con immediatezza il riempimento . E, vicino alla riserva casalinga di acqua , in genere all’altezza dell’orlo della “cantr” c’era, sostenuto da un treppiede lavorato in ferro tondo leggero , il bacile, con il supporto del portasapone e la stecca girevole del portasciugamani ,a disposizione ed a garanzia di una sbrigativa igiene domestica . Non poteva mancare nel vano cucina il tavolo ( se imbandita , la tavola), magari con un tiretto da cui trarre la tovaglia, i tovaglioli , le posate… per apparecchiare ( oggi non si usa più), a cui erano associate alcune sedie in legno . In genere erano sedie frugali ( il mio pensiero per associazione va alle sedie seriali ribaltabili interamente in legno , di ottima fattura ,oggi rimosse, del cinema Fulvio ), accuratamente impagliate , estetizzate sul riquadro di seduta con un elaborato intreccio di cordame di rafia che riproduceva un tessuto il cui stretto e denso manufatto seguiva linee geometriche che pretenziose potevano inscrivere , alternandole nell’intreccio , anche un ordito a colori diversi, spesso di bell’effetto . Le sedie , accoglienti , mettevano in modo distensivo , comodamente a sedere a tavola o davanti al focolare la famiglia, gli amici, le amiche , i visitatori, il vicinato . In cucina spesso , faceva bella mostra di sé la cristalliera : un mobile a giorno in legno massello , addossato al muro in genere a fronte dell’entrata . Allineava all’interno , nei ripiani della vetrinetta a giorno che sormontava la base d’appoggio , il vasellame e le stoviglie di ceramica di qualche pregio : piatti a vista disposti in successione in un precario bilico verticale , spesso orlate da un tenue sfumato azzurrino, che in lontananza ad arte ne accentuava la profondità . Stoviglie che fungevano da sfondo intervallate o anticipate da : tazze , tazzine istoriate in stile bucolico , ricordini a cupola a vetro di santini ( nevicanti se agitati ) dei santuari visitati , che si addensavano sui ripiani, dai cui bordi liberi ; a completare il limitato sfarzo orgogliosamente messo in vetrina , pendevano gli orli di un tessuto orizzontale stretto finemente merlettato . Le stoviglie in mostra in genere erano lontani regali di nozze che a vista ricordavano a mente nei coniugi che con nostalgia li osservavano, i donatori . Nella cassettiera di base , stipate, accuratamente ripiegate , venivano riposte le tovaglie i tovaglioli e quant’altro potesse servire imbandire la tavola nelle ricorrenze festive importanti. Talvolta la parte alta libera della cristalliera era ornata e arricchita da svolazzi baroccheggianti in legno finemente intarsiato . Generalmente in passato finiva qui l’arredo di rappresentanza di una famiglia tipo guglionesana . La cultura del leggere , dello scrivere , del far di conto , nella stragrande maggioranza delle persone appena alfabetizzate , non prevedeva in mostra né la presenza di libri né tantomeno di giornali : supporti di lettura o di consultazione stampati che invece avevano una certa diffusione negli aggregati urbani di maggiore importanza amministrativa della regione . I libri, i giornali…venivano , fogliati con la pasta di cellulosa pressata , se non “ con i cenci degli abiti smessi “ – in merito , ha da noi qualche notorietà la canzone dialettale “Mariantonia a cncnar”-; all’epoca la pasta di cellulosa, frammista a lignina forniva pagine di qualità scadente che con il tempo ingiallivano. Libri riviste professionali, faldoni … che invece accostati si allineavano nelle pur limitate librerie degli studi dei maestri , degli avvocati , dei sacerdoti , del notaio ; in genere si trattava di libri professionali , di diletto dell’èlite scolarizzata locale . Per contiguità , in tempi non lontani , ripensando i materiali di uso corrente , che, almeno per la loro comune origine organica , si possono associare al legno e che i nostri genitori abitualmente hanno indossato , come le abitudinarie scarpe di cuoio, ( gli scarponi dei contadini erano perfino chiodati) realizzate con pelli conciate di animali scuoiati. Erano, quelle di fabbricazione artigianale , calzature resistenti che ancora oggi sono in dotazione ai militari delle Forze armate : anfibi e scarpe da libera uscita , da grassare e lucidare ; senza tacere dei rumorosi zoccoli estivi che avevano la tomaia in legno , ma fasciavano in cuoio l’avanpiede ( in proposito come non citare l’indimenticabile film : l’albero degli zoccoli - con l’incavo indossabile interamente in legno - di Ermanno Olmi ) . Oggi quei mobili in legno e ( e ancor più gli zoccoli in legno ! ) rappresentano solo una curiosa rarità, surclassati da altre tipologie di materiali ( gomma, plastica …) che meglio si prestano alle lavorazioni industriali su larga scala . In cucina hanno fatto la loro comparsa e si sono rapidamente diffusi i mobili “elettroaddomesticati “ multifunzione . L’Ikea ed altre industrie che promuovono l’arredamento popolare ” fai date “ degli interni , giostrando sulla creativa componibilità dei moduli base, realizzano i mobili d’arredo della cucina assemblando i diversi componenti in truciolato ( i trucioli sono scarti della lavorazione del legno ) con l’ estetizzante , ma ingannevole impiallacciatura in legno o peggio in simil-legno : In realtà le superfici vengono laminate dall ‘industria del mobile in formica o plastificate; lamine in origine apparentemente adese alla struttura di truciolato compresso , debolmente ( il truciolato è igroscopico ) tenute insieme da colle, leganti , resine sintetiche : materiali di per sé instabili che con la temperatura che in ogni nostro ambiente di soggiorno vogliamo piacevolmente alta anche d’inverno ( come se vivessimo all’interno delle nostre case una monotona stagione estiva tutto l’anno !) fa aumentare in modo significativo il calore che soprattutto in cucina rende in parte volatili le sostanze chimiche adoperate durante la lavorazione che respirate possono facilitare o provocare l’insorgenza di malattie respiratorie se non patologie più gravi . Contribuiscono all’inquinamento” indoor”non solo le sostanze chimiche volatili che si liberano dai mobili di poco pregio di fattura industriale , ma anche i campi elettromagnetici che si formano dalle “gabbie elettriche “ i cui fili, dislocati , quasi a cintura nei muri perimetrali delle nostre case , e più in cucina rispetto agli altri ambienti, impercettibilmente ci avvolgono cumulando i loro effetti nocivi per la nostra salute nell’ambiente domestico . Nell’insieme , nelle cucine moderne l’arredo , dal design raccolto ed accattivante è formato da un coordinato ininterrotto di basi ( e pensili a giorno) che in parte nell’incavo d superficie accolgono gli acquai in acciaio inox , il piano cottura a fiamma libera , mentre le superfici dei piani d’appoggio facilitano l’uso dei piccoli elettrodomestici , degli utensili di uso comune per la preparazione e l’elaborazione del cibo ; piani di formica o di altro materiale resinoso sintetico che hanno l’innegabile vantaggio della rapida pulizia e di una più facile igienizzazione rispetto all’assorbente ed untuoso legno massello . Le basi , al loro interno incassano ,nascondendoli , gli elettrodomestici di maggior volume : frigo, lavastoviglie , forno .. con una copertura quasi totale dei muri della cucina . Stante l’ingombro del susseguirsi senza soluzione di continuità dei mobili della cucina in genere resta uno spazio limitato per il tavolo , cui spesso si associano sedie metallizzate , anch’esse strutturalmente minimali , se non pieghevoli . Gli infissi: finestre , porte, portoni ,porte-finestre che aprono sui balconi , solo una o due generazioni passate : quella dei nonni , dei nostri genitori , erano in legno : pino, quercia , acero … Il legno è un pessimo conduttore di calore , quindi d’inverno , specie se i muri sono spessi , riduce la dispersione termica all’interno di ambienti riscaldati ; d’estate , al contrario, mantiene una certa frescura , a differenza degli infissi profilati di alluminio : un metallo” freddo” che facilita rapidamente la dispersione del calore, ma ha il vantaggio della poca manutenzione , della resistenza alla corrosione … E, con l’umile legno , fino a tempi piuttosto recenti , con maggiore impegno anche economico rispetto all’arredo della cucina ( ambienti da “notte” con discrezione più riservati ) venivano realizzati i mobili della camera da letto: l’armadio , il comò, gli immancabili comodini , la pettinatoia … In tanti, oggi , dovendo ristrutturare le abitazioni avute in eredità , per sgombrare gli ambienti , ritenendo i mobili in legno un vecchiume oramai obsoleto li hanno sbrigativamente mandati al macero , dimentichi o ignari che gli stessi erano la sudata dotazione minima prematrimoniale per “accasarsi” accordata agli sposi novelli dai loro genitori. Una lavorazione impegnativa commissionata ai valenti maestri falegnami locali, i quali, seguendo spesso le venature naturali del legno utilizzato per la loro manifattura hanno lasciato impresso, specie nelle ante dell’armadio riconoscibili ghirigori naturali di qualche effetto estetico . L’arredo delle altre stanze in genere era scarso , somigliante alle celle monacali ; le porte d’ ingresso alle stanze per dar luce agli ambienti interni potevano essere anche a vetro nella parte alta e, spesso erano in legno verniciato . Come del resto erano in legno a vista le travi portanti il tetto, le traversine che intervallavano il tavolato che sosteneva la sua soffittatura . Negli attuali rifacimenti del tetto di alcune case del centro storico di Guglionesi è facile riscontrare , specie in quelle ristrutturazioni studiate per i “ Bed and breakfast “ come spesso si adottano soluzioni architettoniche che ripropongono soffittature in legno a vista e nei piani intermedi per “riantichizzare”, dopo averli modernizzati ,gli ambienti si sabbiano artigianalmente le volte in gesso appena arcuate per riportare in luce la trama “calda” dei mattoni a faccia vista e le putrelle a T di distanziamento in ferro che intervallano , sostengono e contrastano la soffittatura . Solo qualche generazione addietro l’arte della lavorazione del legno era largamente diffusa in paese : nei primi anni sessanta si contavano almeno una decina di laboratori artigianali attivi a conduzione familiare . Ogni quartiere aveva almeno una bottega e, passando l’odore del legno appena piallato , la polvere del legno appena segato si spandeva piacevolmente odorosa nell’intorno del laboratorio . Ai falegnami si commissionavano porte , finestre , mobili ; e, un maestro artigiano : F. Di Blasio , per mesi, poiché mia nonna abitava di fronte alla sua bottega ,lo vidi lavorare nella fattura e nella tornitura dei bambini invocanti che in diverse pose stavano nella tinozza ai piedi della statua di S. Nicola in Guglionesi : Taranto, Tarantino, Basilico e… ( non so se i nomi rispondono al vero… così li ho conosciuti , così li nominavo da bambino , così ve li ripropongo ) . Anche gli strumenti musicali ; zufoli , flauti, le casse armoniche di chitarre , mandolini, violini… venivano realizzati con legno di acero stagionato , spesso di ciliegio , e a Scapoli, nell’Alto Molise trovava un felice e funzionale connubio il legno con il pellame animale: i materiali usati per la vocata realizzazione locale di zampogne e , ciaramelle . E qui, solo per dare una traccia viva del loro decennale lavoro del legno come non ricordare i falegnami Cuozzo e Della Porta a cui ho commissionato a suo tempo : porte interne , il portone d’ingresso , finestre, finestre per balconi e, perfino il tavolo da cucina della mia attuale abitazione ; infissi in legno flamirè: una specie di quercia . E di passaggio, per non dimenticare , almeno due botteghe particolari le devo citare . Quella del bastaio , un tempo sita all’ingresso di viale Margherita : un basso umidiccio e ombroso in cui affacciandosi si poteva vedere l’occhialuto Michele al lavoro , intento a cucire pellami imbottiti che rivestivano la incurvata intelaiatura portante del basto ; qualche basto era già finito , pronto per accavallare il dorso del cavallo, del mulo, dell’asino ; alcune selle leggere per cavalli da trotto stavano in bella mostra , appese ai muri , talune perfino impreziosite con fiocchi e coccarde ; pendevano allineati ,da una pertica orizzontale di legno i finimenti in scure strisce di cuoio, alcuni con il morso insieme a funi ritorte raccolte a mo’ di lazo, funi intrecciate ad arte , ( meglio in dialetto : “ i zoch” ) , utili per tirare a cavezza gli animali ; sul pavimento basti semilavorati , aspettavano di procedere nel ciclo di lavorazione . Era quella del bastaio una bottega speciale , che richiedeva al lavoratore una perizia e una conoscenza accurata dell’arte del legno poiché la struttura portante del basto arcuata, doveva essere ben adattabile al dorso equino , come una cura particolare doveva essere riservata all’imbottitura del basto ,dovendo essere funzionalmente ergonomica visto che in modo dinamico doveva intermediare , anche per un tempo quotidiano a volte lungo il rapporto uomo-cavallo . Che tali manufatti venissero lavorati in paese, anche in più botteghe è attestato anche dal fatto che alcune famiglie sono meglio note con il loro nome d’arte “ u mastar “ . Come d’altronde , anche i maestri bottai avevano una bottega in paese in cui si curvavano ad arte doghe di legno per farne botte, barili … Era quella del bottaio una bottega del legno molto speciale ; se non ricordo male sita in quel di Portanuova , nei pressi dell’attuale Edificio scolastico delle Scuole elementari . Era lì che vedevo esposte in fila ad essiccare le doghe delle botti , dei barili…. Dell’arte del bottaio, venuto a termine il mestiere di acquaiolo , in paese da tempo non c’è più traccia , tuttavia, anche per tale speciale lavorazione del legno il nome dell’arte è rimasto , associato alle famiglie che la praticavano : u”varlar “ . E come non ricordare qui , anche se con legno hanno scarse relazioni se non quella della comune provenienza organica della materia prima , due lavorazioni artigianali tra loro in qualche modo alla lontana anche queste associabili , tuttavia disgiunte e oramai estinte : quella du “zquar “ ,e quella della filatura della lana. Dell’arte “ du zquar “ ho un ricordo più netto , poiché nelle belle e terse giornate primaverili a fianco del costone che limitava il vallo sottostante che a scendere verso Le Mura fiancheggiava in parte il recinto del giardino dell’asilo Mimì Del Torto vedevo i lavoranti filare, accavallare e intrecciare del cordame in formazione teso tra due estremi fissi ad una certa altezza da terra ; con mani esperte formavano “zoch” e “ Jeqqul “ o un cordame più sottile . Come pure vivido ho il ricordo della tintura della lana ad opera dei Fratelli d’Alò, che, al Portello avevano un attrezzato laboratorio : dopo la filatura semindustriale interna e la tintura della lana, le matasse venivano messe ad asciugare all’aperto : una successione di filati avvolti a spire tutte uguali per confezione ; ricordo i loro colori vividi , che, etichettate venivano poi smerciati in paese e nel territorio . A margine della loro laboriosa intraprendenza artigianale e industriale dei D’Alò non riesco a togliermi dalla mente una oziosa mia ragazzata che li coinvolsero loro malgrado . Noi, monelli per età , avevamo osservato che nelle tiepide mattine primaverili, prima di attendere al loro lavoro , i maestri artigiani della lana erano solito appendere ad un ramo di acacia una gabbietta , “a cajol” con alcuni cardellini che , reattivi svolazzavano, si fa per dire, al suo interno ; di fatto sbattevano inutilmente contro le aste in fil di ferro della loro prigione . In un afoso pomeriggio, , bighellonando nell’intorno armati di fionde a molla, a caccia di nidi da scompigliare , non avendo trovato altro all’interno dei nidi visitati che miseri , implumi, repellenti uccellini con i becchi spalancati, si era pensato di rubare la gabbietta dei cardellini appesa al ramo ; non visti , furtivi la prendemmo e scomparendo lesti verso il dirupo del Sottoportello ; cavammo fuori i caldi corpicini dei cardellini e li nascondemmo tra la canotta e la camicia . Eravamo in tre a compiere la monellata e ciascuno prese in custodia un cardellino e , soddisfatti dell’opera ce ne tornammo tranquilli a casa . Alla sera , poiché i D’ Alò ci avevano visti ( e riconosciuti) nel pomeriggio gironzolare nell’intorno , accortisi del furto , reclamarono presso i nostri genitori i loro cardellini , che custoditi in casa in modo precario prontamente restituimmo non senza provar vergogna per la bravata , con le scuse dei nostri stupefatti genitori e con i loro meritati rimproveri per aver noi ordito il fattaccio. A conclusione di questa libera ricostruzione della stretta interdipendenza che da tempi immemori c’è stata tra il legno e qualità della vita di coloro che l’utilizzavano , soprattutto nelle generazioni passate, per quanto l’argomentazione che segue possa risultare piuttosto ardua non posso non accostare la fisica quantistica (dopotutto un’imperfetta e faticosa estrazione dai fenomeni naturali di “ virtù e conoscenza “ operata da illuminati e valenti scienziati ) ad un processo naturale come quello fotosintetico che si svolge sul nostro pianeta da miliardi di anni , replicato nelle piante ogni giorno un’infinità di volte . La fisica quantistica era già inscritta nella fotosintesi ( i quanti di luce trradiati dal Sole , ovvero ” i pacchetti discreti di energia” ,che come i colpi esplosi in successione da un mitra ( A.Einstein) bersagliano la clorofilla contenuta nelle foglie degli alberi, nelle erbe… sfruttando un “salto” quantico e, sbalzando elettroni dalla clorofilla producono energia per la fotosintesi e quindi per la formazione di biomassa organica vegetale ; per quel che qui ci interessa, anche per la lenta produzione del legno nel fusto e nelle ramificazioni legnose e non degli alberi . La natura non ha alcuna necessità di erigere torri eoliche per produrre energia , né di stendere su terreni coltivabili chilometri quadrati di pannelli solari per sfruttare l’effetto fotoelettrico della luce nella produzione di energia ; né tantomeno ha bisogno di spaccare atomi radioattivi ( findere) per produrre energia dall’atomo . A produrre energia negli ecosistemi, nei biomi provvedono gli interconnessi loop ecologici di cui comunque siamo parte integrante . Gli apparati fogliari delle piante lentamente accumulano energia verde , formando ogni giorno una massa Giga di biomassa organica . Per le piante ( per le alghe in mare ) è sufficiente che faccia giorno per iniziare con il loro innato capitale biologico la loro produzione “su scala planetaria “ di energia e materia che , noi , senza per nulla accorgercene, né pensarci utilizziamo nel nostro quotidiano. Quando assumiamo il cibo utilizziamo l’ energia organicata nei prodotti alimentari della terra o accumulati più lentamente nelle porzioni della carne degli animali macellati . Prendiamo ( assumiamo, sarebbe un termine migliore , ma devo preferire , prendiamo , specifica meglio l’aspetto antropico di rapina nonché predatorio rispetto alla natura) energia e materia dal cibo vegetale ed animale, quindi dalla Natura , ringraziando ogni giorno Madre Natura per la semigratuita assunzione del nostro ”pane quotidiano” ; ciò per ricordare solo di passaggio la nostra vitale stretta interdipendenza dalla produzione vegetale e animale , riannodando , così, attraverso il cibo , ad ogni pasto, in modo cosciente o incosciente il nostro legame con la biosfera interconnessa e, con più immediata sintesi , con il nostro dio interno ( leggi DNA) poiché in quanto viventi siamo fatti della stessa sostanza di tutti gli altri viventi sulla terra , animali , vegetali o funghi … che siano ed è anche per questo che delle loro parti eduli possiamo cibarcene in modo salutare . In chiusura , comunque grato per la pazienza con cui qualcuno mi ha seguito mi corre l’obbligo di menzionare almeno un aspetto delle piante che dà conto , al di là del loro radicato immobilismo di essere anche attenti e veritieri testimoni del nostro tempo storico .La Cronodendrologia è una scienza nuova che consente di “leggere” in una sezione trasversale di un albero , la sua storia , il suo tempo-vita e gli eventi climatici di cui l’albero è stato testimone vivente ( interessante sull’argomento il libro “Gli anelli della vita ; la storia del mondo scritta dagli alberi di Valerie Trouvet ) , un modo altro per conoscere la nostra storia climatica e ambientale , alle volte anche millenaria “scritta” nelle piante più longeve .

Arcangelo Pretore


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