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Pubblicato in data 12/1/2022 ● Click 1205

Voci frentane: “povero quel corpo dove non ci va il pelo di porco”


Giorgio Senese © FUORI PORTA WEB

Era ancora buio quella fredda mattina di gennaio e la nostra Fiat 850 giallo canarino, tossiva sobbalzando sulle basolate laviche.
Dalle bocchette non arrivava ancora l’aria calda, mentre dal lunotto posteriore, l’antica Collenisio figlia della ancor più antica Usconium, si faceva sempre più lontana.
Il fumo dell’alfa senza filtro di mio padre, veniva aspirato avidamente dal deflettore e mia madre era sparita nel suo paltò.
Io e i miei due fratelli, strappati al miglior sonno, uno sopra l’altro sul freddo sedile posteriore in similpelle.
Fuori dai finestrini appannati, la campagna ingioiellata di brina mentre la Madre Maiella ci guardava nel suo vestito bianco e luminoso di neve.
Poco più in là, verso destra, le cime del Gran Sasso d'Italia.
In mezz’ora circa, arrivammo al casolare dello zio Cesario, fratello di mamma, per tutti zi’ Gesarij, nel territorio dell’antica Petazio.
Lo scorgemmo già da lontano, a trasportare con la carriola, balle di paglia sotto la gigantesca quercia e, mentre la 850 disegnava le ultime curve, mamma ci raccontò ancora una volta della lotta tra quella pianta secolare e lo zio, che si era messo in testa di tagliarla.
La prima volta la sua motosega della miglior marca, al momento topico, non si mise in moto.
Allora infuriato andò in paese e prelevò di forza il suo meccanico ma anche costui dovette arrendersi, decretando l’incollaggio delle fasce elastiche dell’attrezzo ancora in garanzia.
Lo zio non ci dormì e la mattina seguente voleva riportarlo al negozio dove l’aveva comprato ma quando aprì il garage fu assalito dal fumo della motosega che nella notte, si era messa in moto misteriosamente.
Non se la sentì di sfidare un così chiaro avvertimento e desistette dal proposito.
La rassegnazione non durò molto e infatti, dopo qualche anno rispolverò il progetto di abbattimento.
La sera prima del lavoro, durante la cena, ne parlò a tavola a sua madre che cercò di dissuaderlo in tutti i modi definendo “un peccato davanti a Dio” quello che aveva in mente.
Ma lo zio fu irremovibile. La mattina dopo, mentre attaccava il mulo al “traìn” giunsero trafelate la moglie e le figlie ad informarlo che sua madre, mia nonna, era morta nella notte.
La terza volta decise di far fare agli altri.
Vendette la quercia ai boscaioli che stimarono di ricavarci una decina di canne di legna.
Arrivarono di buon mattino al casolare e dopo i convenevoli e il caffè, si misero al lavoro.
Zio si mise a distanza a godersi lo spettacolo ma prima ancora che il tronco venisse scalfito, un dolore lancinante gli scoppiò alle reni.
Prese a urlare di dolore senza contegno, cadde a terra contorcendosi mostruosamente nella polvere.
La squadra fermò ogni attività, lo portarono in ospedale con un tre ruote e spaventati dalla nomea che aveva ormai il gigante vegetale, non reclamarono neppure la restituzione del pagato.
Zio rimase in ospedale più di un mese e quando ormai i medici si preparavano ad operare, espulse spontaneamente il calcolo renale. Lo conservava in un barattolino sulla mensola del camino.
Da allora considerò la quercia un appartenente alla famiglia, una sorella benevola a guardia del suo podere e, soprattutto, della sua salute.
Intanto la nostra macchina venne circondata da cani latranti e zia Santina, moglie di zi’ Gesarij, ci accolse con in braccio il termos del caffè.
Nonostante le occhiatacce di mia madre, ne bevemmo anche noi ragazzi. Poi abbracciamo gli zii scambiandoci gli auguri per il Natale che era appena passato.
Si avvicinarono quindi, anche altri parenti zii e cugini sospendendo le varie attività in cui erano già impegnati.
Zi’ Gesarij lasciò la carriola ed entrò nel casolare. Ne uscì con un fiasco del vino nuovo da assaggiare sotto il braccio.
Zia Santina si avvicinò con un vassoio di bruschette scottanti. Salsicce, caciocavallo e fette di primo sale. Mia madre ci guardò torva e poi si arrese-Solo perché oggi è oggi se no…!- e accompagnò la frase con il gesto della mano come a dare una sberla.
Mangiammo e bevemmo un bicchiere di vino con gusto, quella era una giornata particolare in cui avremmo onorato la tradizione arcaica dell'uccisione del maiale.
Zi’ Gesarij lavorava in fabbrica ma tra un turno e l’altro allevava animali da cortile e tre o quattro maiali ogni anno.
Amava ripetere a noi ragazzi – Imparate e mettete da parte! Ricordatevi che quando tutto manca la terra non tradisce mai! -.
Lo zio era un tipo allegro e festaiolo. Amava la compagnia e per questo invitava tutto il parentado a partecipare all’uccisione del maiale.
Era bello scoprirsi parte di una grande famiglia i cui componenti venivano ormai da posti anche lontani e dalle storie più incredibili.
Ormai il sole era uscito completamente dalla linea del mare e risplendeva nel cielo terso e gelido di quella particolare giornata di quarant’anni fa.
Altri parenti erano arrivati e la campagna adesso era piena di voci e bambini che giocavano in quel campo giochi anarchico dove sporcarsi era la regola.
Dal retro del casolare arrivava l'odore del grasso delle anguille che sfriggeva sui carboni mentre Leo, unico figlio maschio di zio, esortato dal padre, si appiccicava a mio padre perché voleva a tutti i costi imparare da lui l’arte norcina.
Uno dei primi ad arrivare, era stato zio Fedele,”Zi’ Fdel” marito di zia Lucia, una delle sei sorelle di mamma insieme a suo figlio Natale, Lillino per tutti.
Zi’ Fdel si era autoassegnato in perpetuo il compito di far bollire l’acqua per la pelatura e per le altre necessità. Si era specializzato e con perizia teneva sempre il fuoco vivo bruciando i rami di ulivo scarti delle ultime potature.
Lillino, suo figlio, a differenza di suo padre che era scheletrico con gambe lunghe e sottili, era un uomo dal fisico possente.
Era il nostro cugino più grande, sposato e già con una bimba, lui avrebbe tenuta bloccata la zampa anteriore del maiale, la più pericolosa, nel momento topico.
Gli stivali in gomma erano irrigiditi dal freddo e per infilarli dovemmo scaldarli al fuoco di zi’ Fdel.
Così quest’ultimo si trovò ad avere compagnia intorno al fuoco e quale migliore occasione per raccontarci per l'ennesima volta, dei patimenti sofferti in Africa, in tempo di guerra.
Era stato fatto prigioniero dagli inglesi in Cirenaica, nella battaglia di Bardia e poi internato in Sud Africa.
Sapeva appena scrivere, ma in prigionia aveva tenuto un quaderno a mo’ di diario.
La copertina riportava:
Sud Africa-Ricordo della mia prigionia di guerra. Età più bella, giorni più tristi.
Aveva candidamente riportato su carta, lo stato d’animo di un giovane cresciuto a pane e moschetto, desideroso di servire con onore e impegno la patria ma che, al tempo stesso, non avrebbe mai voluto lasciare i suoi cari e la sua terra.
Una bella pagina era dedicata a una struggente “preghiera del prigioniero” che recitava ogni sera prima di dormire.
Signore Iddio, che mia madre mi insegnò a chiamare con il dolce nome di Padre perché mi sei veramente tale, mi hai creato, mi hai conservato nella vita fra tanti pericoli, dall’alto dei cieli ascolta pietoso la mia preghiera.
Sono un povero tuo figlio, lontano dalla patria e dalla mia casa per aver compiuto il mio dovere di soldato, soffro ora questa prigionia e questa forzata lontananza dalle persone che mi hai dato a conforto e sostegno della mia vita...

Nelle ultime pagine del piccolo quaderno con la copertina nera, un lungo elenco di parole in colonna.
A sinistra in italiano e a destra in inglese.
Così, che “pronto” corrispondeva a “ridi” e “duro” ad “ard”.
C’era anche una pagina per le offese con riportato testualmente “vaffacoff” e “sanana bic”. Vaffanculo e figlio di puttana!
La libertà arrivò dopo nove anni e si sposò, quindi, con la sorella maggiore di mia madre, zia Lucia. Zi’ Fdel era un uomo simpatico che sapeva stare agli scherzi, educato e rispettoso di tutti con il costante timore di poter offendere qualcuno. “Scusa, scusa, non volevo offendere…”
Era esilarante poi quando, per rafforzare una sua asserzione, si dava uno schiaffo con la sua manona ossuta, sul ginocchio esclamando “Madonn!”.
Zi’ Fdel si sfregò le mani alla fiamma e prese a intrecciare una corda da imballaggio.
-Zì Fdel si sta’ preparann ! (zio Fedele si sta preparando!) - disse zi’ Gesarij ridendo forte per farsi sentire da tutti e la cosa suscitò l’ilarità nell’aia. -Oj Fdè, k tdà npenn!- (Fedele, che devi impiccarti?) disse come sfottò sua moglie rifacendo ridere tutti quanti.
-Va bè, ridete ridete…se scappa…po…po..po… v voj vedè... madonn!-, consapevole della benevola presa in giro.
Girando la testa “L’acqu vooll!” (l’acqua bolle) urlò, “jamme ja!” fecero in coro gli uomini.
Mio padre aspirò l’ultima boccata e buttò la cicca tenuta ormai tra le unghie.
Arrotolò le maniche della camicia fino sotto le ascelle mentre mia madre gli allacciava uno dei suoi grembiuli fiorati.
Prese dunque la piccola cassetta di legno dove conservava i due coltelli che usava solo per queste occasioni e la lasciò ai piedi della quercia.
Erano coltelli di Frosolone, la sannita Fresilia, non seconda alla più famosa Toledo per le lame belliche e che ha esportato forgiatori in ogni angolo del mondo.
Nel sangue dei suoi abitanti non scorre il sangue ma metallo fuso.
Un coltello con lama lunga e stretta, “u scannatur” lo scannaturo e l’altro della stessa lunghezza ma panciuto e poco tagliente,” u plator ” il pelatore.
Tornò quindi alla porta della stalla e prima di entrare, si girò verso tutti noi per assicurarsi che ognuno fosse al proprio posto. Ci fece segno con la mano di tenere sgombro il percorso che avrebbe dovuto percorrere il maiale. Prese poi una corda corta ed entrò.
Nel silenzio ormai surreale, si udiva solo il crepitare del fuoco e la voce di mio padre che con fare pacato, invitava i maiali a cedergli il passo.
Un veloce scalpitare d'unghie sul cemento e qualche breve grugnito ci dava conferma del suo spostarsi in quello spazio angusto e pericoloso.
Improvvisamente “Hiiiiii!!! ”, un grido lancinante dell’animale squarciò l’aria e fece sobbalzare tutti i nostri cuori e per una sorta di solidarietà suina che anche gli altri presero a imitarlo.
Il malcapitato uscì strisciando sul sedere, trascinato inesorabilmente fuori.
Papà gli aveva stretto il cappio oltre i canini, in modo tale che non gli fosse possibile liberarsi.
Uomo e animale presero a percorrere, l’uno a tirare l’altro a frenare, la strada verso il letto di paglia sacrificale.
Gli altri attori si accodarono spingendo e guidando il maiale da dietro.
Arrivato a destinazione il corteo si fermò e la tensione sembrò allentarsi.
Anche il maiale smise di urlare e grugnì, illudendosi che fosse tutto finito.
Zi’ Fdel, svelto mise in atto la sua tecnica personale, passò la fune intorno alla zampa posteriore e la mise in tensione avvolgendola a un ramo della quercia, dietro il cui tronco si nascose.
Le persone si affiancarono al maiale ormai allineato alle balle e “Oooh!!!” al comando di papà l’animale venne sollevato, sdraiato e bloccato da tutti noi che gli stavamo addosso.
Io tenevo ripiegato e immobilizzato il piede posteriore sinistro, zi’ Fdel quello destro, ma la sua tecnica non era efficace come lui credeva.
Gli strattoni allentavano la corda e la zampa, non trattenuta adeguatamente, mi sfiorava la faccia.
Mi misi in sicurezza spostandomi da un lato tenendo tutti i muscoli tesi a contrastare la reazione dell'animale.
Con il maiale così bloccato era pronto ad essere ucciso ma, l’usanza voleva che, come un rito di iniziazione, il bambino più giovane presente, doveva tenerlo per la coda.
Toccò a mio fratello piccolo quindi papà immerse rapido la lunga lama, nella fossa sternale.
Nel retrarla, il sangue esplose fumante a inondargli il braccio e parte del viso.
La reazione dell’animale fu violenta ma non aveva scampo, noi eravamo più forti.
Dopo due o tre strepiti potenti, le donne si avvicinarono a raccogliere il sangue che usciva ora, a fiotti più regolari. Lo agitavano di continuo con un mestolo per evitare si coagulasse.
Quel sangue sarebbe diventata la nostra “nutella” ante litteram, sangue, cacao in polvere e bucce d’arancia.
Un ultimo debole sussulto poi un lungo fremito e l’animale si arrese.
-Ha scacchiet l’ogn-(ha allargato le unghie), segno di morte avvenuta.
Zi’ Fdel portò una pignatta d’acqua bollente e la versò dentro nell’orecchio dell’animale. Nulla, nessuna reazione.
-E’ iuto! Iamme a pelà! – (E’ andato andiamo alla pelatura).
Su di una scala a pioli portammo il maiale al casolare posizionandolo in mezzo alle porte per far drenare l’acqua all’esterno.
Zi’ Fdel si occupò dei piedi e staccò le unghie con le tenaglie da fabbro.
Ripulì il muso dalle setole più ispide con il coltello e poi, con la paletta del camino rovente, bruciò gli ultimi peli rimasti.
Con l’acqua bollente e strusciando con forza un sacco di “malvon” juta, spellò le orecchie.
Noi altri ci alternammo a pelare il corpo, prima da un lato e poi, dopo averlo rigirato, anche dall’altro.
Papà incise la cotenna estraendo i tendini delle zampe posteriori e ci infilò il “Gamjer”, una sorta di gruccia fatto con duro legno di quercia, attrezzo prezioso che passa da una generazione all'altra.
L’animale finì appeso a testa in giù.
Qualcuno portò una brocca di acqua tiepida che papà usò per lavare tutto il corpo definitivamente e l'asciugò rasando con il dorso del coltello come fosse uno strigile.
Si pose poi di fronte al ventre e cominciò a tagliare seguendo la linea di mezzeria. Recise la parte pubica compreso di apparato sessuale e buttò il tutto ai cani che nella caciara si avventarono sul dono.
Venne estratta la vescica per la ventricina e gonfiata con la bocca prima di essere messa ad asciugare su un ramo, come un palloncino. La trippa venne svuotata del suo contenuto e poi spellato con acqua calda da zi’ Gesarij e da sua moglie.
Mio padre intanto recuperava le budella dell'intestino tenue. Io le raccolsi a gomito sul braccio man mano che le staccava dal “pencio”.
Feci attenzione a fare le spire della stessa misura, quelle sarebbero state le “pieghe” di salsiccia.
Portai il tutto a mamma che lo tagliò in un sol colpo in basso per svuotarlo del contenuto.
Insieme con le zie, poi le lavò rigirandole e raschiandole con i cucchiai.
Al termine le misero in una bacinella con acqua e bucce di limone.
Papà intanto aveva diviso il maiale a metà lasciandolo unito solo dal grifo.
Staccò la sugna e distanziò le due metà interponendo una canna a contrasto allo scopo di farle asciugare e raffermare.
Cuore, lingua, polmoni e fegato avvolti nella pleura furono appesi accanto alla vescica. La milza e la cistifellea vennero dati ai cani.
Le donne tagliarono nella zona della gola, le parti più insanguinate e mio zio le mischiò con la carne recuperata dalla testa.
Questa era la materia prima per il soffritto che venne messo a cuocere in grossi tegami di ferro con una grande quantità d'aglio rosso solo schiacciato.
Estratto il cervello, venne fritto nell'uovo e dato da mangiare ai bambini.
Zia Santina con il suo vassoio passava da una persona all’altra imboccandole con salumi e formaggi considerato che tutti avevano le mani sporche.
Raccoglieva così i complimenti di tutti soprattutto per la sua famosa “ventricina”. L'insaccato tipico abruzzese, molto piccante, che a lei riusciva particolarmente bene essendo lei originaria di Castilenti.
Da lì a poco l'invitante profumo del soffritto si profuse per tutta la campagna e vicini e passanti si affrettarono ad avvicinarsi per salutare la compagine festante.
“Santo Martino!” e tutti insieme “Bon mnut!” (Ben venuto!).
Gli zii fecero gli onori di casa con le presentazioni tra i convenuti legati amicizie, da parentele lontane o sangiovanni (compari e commare).
Vino e carne di maiale da assaggiare pena l'offesa grave al padrone di casa.
Gli uomini intorno ai quarti di maiale appesi, fumavano o bevevano disquisendo sulla percentuale tra parte grassa e parte magra.
-Sol quatt dat d grass sopi spall! (solo quattro dita di grasso sulle spalle)- disse mio padre. – È sciut bon pe nu porc d du quintal! (E’ buono considerando che il maiale pesava due quintali) - ribatté zi’ Gesarij soddisfatto.
Zi’ Fdel batté con anticipo sulla gamba e poi- “Na vot chiù grass gher e miy ieva. Mò ku stu cazz d polistirol…!”. (Una volta più grasso era e meglio era. Adesso con questo polistirolo…)
La grande tavolata venne allestita, usando posate, tavoli e sedie di ogni sorta e genere.
I bambini facevano un gran baccano, inseguendo cani, gatti. Le faraone urlavano stridule mentre oche e polli svolazzavano brevemente ad ogni tentativo di cattura.
A pranzo ormai in corso, arrivarono anche le due sorelle adolescenti di Leo, vestite con il vestito della domenica. Un bambino correndo le schizzò di fango e… apriti cielo! Alle loro strilla di disperazione simili a quelle delle faraone ridemmo a crepapelle.
Zi’ Gesarij andò in paese e tornò carico di panettoni, bottiglie di spumante e, “u markscianill” (L’organetto a due botti).
Quest'ultimo era di mio nonno, passato ora a suo figlio, per le feste, le serenate e gli auguri a Capodanno, Sant’Antonio Abate e a San Sebastiano.
Lo zio suonava ad orecchio, e ballammo fino a notte fonda.
I miei si congedarono mentre noi già dormivamo sul sedile posteriore e la 850 riprese la strada di casa.
Siamo rimasti in pochi a continuare la tradizione del maiale che, oltre ad assicurare un anno di abbondanza in dispensa, rinserra i legami tra le comunità e scandisce in qualche modo, anche il tempo che ci è dato da vivere.
Tanti però sono i molisani che anche vivendo e lavorando lontano, tornano per l’occasione e si salutano poi, dandosi appuntamento in modo scaramantico all’anno successivo.
Il Molise esiste e resiste, nonostante le battute gratuite di qualche saccente spiritosone.
Strappato come unghia dalla carne dall’Abruzzo, custodisce con orgoglio silenzioso, una cultura millenaria.
Tra i nostri monti e le nostre valli riecheggia ancora il grido di guerra dei “Viteliù”, il termine osco che in latino si traduce “Italia”.
Silla fece di tutto per cancellare ogni traccia della nostra memoria storica e di quella che fu la confederazione dei popoli italici sanniti che fece tremare la Roma antica.
I fieri sanniti furono massacrati ma mai domati e avendo avuto riconosciuti gli innegabili meriti che avevano, costituirono di fatto l'ossatura civile e militare da cui Roma prese il volo.
Senza di loro niente Roma, niente Impero, niente Italia.
Il Molise esiste ed è uno scrigno di saperi e sapori tutto da scoprire. Ma non accalcatevi, qui vige un ritmo lento, direi umano.


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