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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 17/2/2020 ● Click 1345

Da Guglionesi a Torino


Antonio Sorella © FUORI PORTA WEB

Caro direttore, sono 50 anni che sono a Torino, nell’allegato ho ripercorso la vita lavorativa di questi anni ed è pubblicato insieme ad altri scritti sul sito http://www.ismel.it/altissimo.html.
Mi pareva opportuno, adesso che è pubblico inviarvi questo mio scritto e se lo vorrà, può pubblicarlo nella sezione che ritiene più opportuno.
Un caro saluto, Antonio Sorella
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Partenza e arrivo.

Alle ore 19 circa dell’8 settembre 1969 la valigia era pronta. Mia madre insisteva per farmi indossare il vestito fatto su misura dal sarto del paese. “Devi presentarti bene” mi disse ed io, per accontentarla, lo misi. Dovevo partire per Torino, in tasca avevo la lettera di assunzione della Carello S.p.A., azienda metalmeccanica torinese. La corriera dal mio paese per Termoli era alle 19.30, lì avrei preso il treno che arrivava da Lecce per Torino, ero euforico, stavo andando a lavorare lontano. I distacchi non mi pesavano, ero abituato. Nei quattro anni precedenti avevo studiato a Napoli, ero stato in collegio e tornavo solo per le vacanze. Avevo conseguito un diploma professionale di Congegnatore Meccanico all’Istituto Professionale di Stato A. Meucci; in verità, avevo iniziato gli studi frequentando l’Istituto Tecnico Industriale ma il primo anno venni bocciato e ripiegai sul Professionale che durava solo tre anni. Salutai mia madre che si prodigava in raccomandazioni e i miei due fratelli più piccoli e mi avviai alla fermata della corriera.
Era una bella serata estiva, non era ancora buio, misi la valigia nel portabagagli e salii. Mia madre, che volle accompagnarmi, dal marciapiede guardava tutti i miei movimenti e silenziosamente piangeva anche se cercava di non farsi vedere: “abbi cura di te, scrivimi appena arrivi” diceva, io annuivo e la salutai con la mano dal finestrino mentre la corriera pian piano si avviava.
Arrivato a Termoli mi recai a fare il biglietto poi andai nella sala d’aspetto, il treno arrivava alle 21.15. Quando arrivò il treno salii e incominciai a cercare un posto per sedermi, il treno era pieno, molte persone erano in piedi, anche nei corridoi. Avevo parecchie difficoltà ad andare avanti, e dopo due vagoni mi fermai nel posto di salita, vicino al bagno: c’erano altre due persone sedute sulla loro valigia, feci anch’io la stessa cosa. Il treno sarebbe arrivato a Torino la mattina successiva alle 9.30. Un incaricato dell’Azienda attendeva i ragazzi che, come me, arrivavano dal Sud alla stazione di Torino Porta Nuova e il suo compito era quello di portarci nel dormitorio predisposto. Si, non ero solo, con me erano stati assunti altri quattro amici che venivano a scuola con me, lo stesso collegio.
Durante i primi giorni di agosto ricevetti un telegramma dalla scuola. Mi chiedevano di presentarmi a Napoli in collegio. “Un’ importante azienda torinese La convoca per un colloquio e per una eventuale assunzione”. Lì ritrovai alcuni miei compagni di scuola a cui era arrivato lo stesso telegramma. Eravamo seduti in un’aula e di fronte a noi c’era un signore che si qualificò come capo del personale della Carello, Dott. G. C. che, tra le tante cose, disse: “Sarete assunti come operai di 3° livello, la vostra paga sarà di 405 lire orarie, 80.000 lire al mese, penseremo noi ad alloggiarvi, vi manderemo una lettera con le cose necessarie da portare”. Accettammo tutti, anche se il mese prima avevamo fatto un colloquio con un responsabile dell’Alfa Sud di Pomigliano (Na). Lo stabilimento era ancora in costruzione e ci dissero che ci avrebbero chiamati per farci fare un corso di tracciatore a Torino. Questa seconda possibilità io, come gli altri, la liquidammo con l’idea che comunque saremmo dovuti andare a Torino e avremmo scelto chi prima ci chiamava. Non ne sapevamo niente di fabbrica. Arrivò prima la Carello, così mi ritrovai in questa città dopo una notte insonne e di prima mattina vidi per la prima volta la nebbia. Scesi alla stazione di Porta Nuova con la mia valigia e mi avviai verso la fine del binario. La gente era tanta, sentivo parlare molti dialetti meridionali, io li capivo perché nel collegio eravamo un crogiuolo di ragazzi di regioni diverse e quindi con dialetti diversi: abruzzesi, laziali, pugliesi, calabresi, campani, siciliani. Lì, alla fine del binario, si riproponevano gli stessi idiomi.
Dovevo cercare il referente della Carello. Supposi che doveva essere uno con un cartello con scritto Carello perché vidi altre persone che tenevano dei cartelli in alto con su scritto il nome di qualche fabbrica. Mi aggirai per la stazione ma non trovai nessuno. Dopo mezz’ora di vani tentativi incontro il mio amico di scuola E. G., anche lui era sullo stesso treno. Era salito a Vasto, grandi abbracci e fine dell’apprensione: in due si stava decisamente meglio. Rileggendo la lettera che ci avevano inviato, scoprimmo l’inghippo: loro ci consigliavano il treno che partiva da Napoli e che sarebbe arrivato alle 10.40 e quindi siccome eravamo arrivati in anticipo, non c’era ancora l’incaricato ad attenderci. Verso le 10.15 vedemmo un signore in divisa con un cartello attaccato ad un’asta alla fine del binario 11, dove sarebbe arrivato il treno da Napoli. Ci presentammo e lui ne fu contento perché noi due conoscevamo chi doveva arrivare da Napoli e non c’era pericolo che si perdesse qualcuno, anche perché eravamo tutti ragazzi di 17/18 anni (quindi, per l’epoca, minorenni). Di lì a poco arrivarono gli altri quattro: F. G. della provincia di Benevento, N. P. di Casal di Principe (Na),
D.L. R. della provincia di Caserta e R. G. di Napoli. Dopo esserci salutati con calore andammo dietro la nostra guida che ci portò fuori dalla stazione, in un parcheggio dove ci aspettava un furgone, salimmo su e ci avviammo.
Il tragitto fu abbastanza lungo, dovevamo arrivare in viale dei Mughetti 20, quartiere Vallette situato nella zona nord di Torino. Ci fermammo davanti ad un palazzo di dieci piani, uguale ad altri della zona, vicino ad esso c’era una chiesa in stile moderno ma la nostra attenzione fu attratta dal campo di calcio dietro al palazzo, subito sentimmo la voglia di fare qualche partita a pallone. Saliti 5 gradini ci trovammo in una grande sala dove sulla destra c’era una specie di ricevimento. Un prete che ci guardava interessato, sulla sinistra sedie e tavolini occupati da ragazzi e signori che anche loro ci guardavano.
Il prete, Don B., ci chiese la carta d’identità e ci registrò su un quadernone per l’assegnazione delle camere. Il signore che ci aveva accompagnato si congedò ricordandoci di presentarci all’indomani in fabbrica, in corso Unione Sovietica 600. Ci istruì anche circa il bus da prendere, il 59. Dovevamo scendere in via Sacchi e da lì prendere il 63 che ci avrebbe portati a destinazione.
Fummo accompagnati alle camere al 4° piano con l’ascensore, c’era un lungo corridoio, sei porte per parte che davano ad altrettante camere. I bagni erano in comune e situati in fondo al corridoio, di fronte ai bagni cerano dei lavabi rettangolari molto lunghi, niente docce, le misero due anni dopo chiudendo il secondo piano che fu attrezzato con una ventina di docce. Le camere erano a quattro posti, letti e armadietti in fila su una parete, una scrivania con due sedie in formica. Il prete ci divise per regioni, i 4 campani nella stanza 21, io ed E. G. che eravamo Abruzzesi nella stanza 24 che era di fronte. Nella nostra stanza c’erano due letti già occupati. Il prete ci disse che erano al lavoro ed erano dei bravi ragazzi. Aggiunse che la mensa era nel seminterrato, gli orari dei pasti dalle 12 alle 13 e dalle 19 alle 20, di portare le posate, che il pasto costava 200 lire e che ogni inizio mese l’affitto per la camera che era di 5000 lire. Le pulizie le facevano delle signore ogni mattina, il cambio lenzuola avveniva ogni settimana, se avessimo avuto bisogno di farvi lavare degli indumenti le signore erano disponibili dietro pagamento.


L’inizio della vita lavorativa.

Il giorno dopo alle 9 eravamo in Carello. In una sala fummo riuniti insieme ad altre persone e di lì a poco arrivò il capo del personale, sempre lui, dott. G. C.. Vicino aveva una segretaria col notes in mano che aspettava ordini, il boss si girò e chiese quanti ne servivano al montaggio. “Due” rispose la segretaria, il dottore ci guardò uno per uno e scelse i più mingherlini, tra cui il mio amico E.. Poi ci fu la richiesta di quattro persone nel reparto presse e scelse i più robusti. Io ero a metà strada e fui mandato nel reparto trance, accompagnato da un sorvegliante. Arrivo nel reparto, mi consegnano al capo, sig. V., il quale dopo avermi chiesto quanti anni avevo e da dove venivo, mi accompagnò vicino ad una trancia e disse al lavoratore che era lì di insegnarmi.
Non era niente di che, la trancia era un meccanismo di acciaio che in modo meccanico mandava su e giù uno stantuffo che tagliava la lamiera azionato da un pedale, la lamiera era arrotolata e bisognava tirarla ad ogni trancia, i dischi di lamiera andavano dentro un raccoglitore di ferro lo sfrido della lamiera andava in una fossa che era lì vicino. Non era passata neanche una settimana che iniziarono i primi scioperi del cosiddetto “autunno caldo”; a me gli scioperi piacevano, rompevano la monotonia di un lavoro ripetitivo. Ricordo che facevamo spesso gli scioperi “a singhiozzo” così definiti perché se ne facevano tanti nella giornata di pochi minuti, o grandi assemblee nella sala mensa con così tanta gente che non si vedeva chi parlava. La cosa che ho imparato in quel turbolento fine ‘69 è che c’erano i “padroni” che sfruttavano e i “lavoratori” che venivano sfruttati: da questo assunto ne derivò il mio comportamento nella fabbrica Carello. Un comportamento che sostanzialmente rifiutava l’autorità e l’imposizione e che si esplicava attraverso il rifiuto di svolgere un certo lavoro o semplicemente dimezzando la produzione data. Nei due anni e mezzo rimasto in quella ditta mi trasferirono in quasi tutti i reparti: presse, magazzino, montaggio, galvanica ed altri ancora. L’unico reparto dove sarei voluto andare e mi è stato sempre negato era l’attrezzeria, dove si lavorava con le macchine utensili (tornio, fresa, ecc.). Questo reparto mi era precluso perché - come dicevano i miei vari capi a mia domanda – “bisogna meritarselo” che tradotto voleva dire che bisognava essere raccomandato.
Avevo collezionato un sacco di provvedimenti disciplinari: per ritardi sul luogo di lavoro, per scarso rendimento, per irriverenza al responsabile, per irreperibilità al controllo dell’incaricato della mutua. Un giorno di maggio del 1972 mi accompagnarono dal capo del personale che era quello che a Napoli ci disse che saremmo stati tutti una grande famiglia e che avrebbe valorizzato le nostre competenze, ma in quell’occasione mi disse che l’azienda non aveva bisogno di me e che, a causa di tutte le contestazioni che avevo preso, avevano deciso di licenziarmi.

Il lavoro non manca, si cambia.

Non ero particolarmente preoccupato, avevo ancora la residenza al paese e lì era in costruzione lo stabilimento Fiat di Termoli dove avrebbero assunto prima i residenti, ormai era mia intenzione tornare giù. Però in quel periodo si attivarono i miei amici per cercami un posto qui a Torino e di lì a poco andai a lavorare alla Ditta Succi, ubicata a Villarbasse che costruiva macchinari per le ferrovie.
Era una ditta immersa in mezzo al verde, in un prato, fuori dal paese. Quaranta dipendenti quasi tutti specializzati perché non era una produzione di serie. In questa fabbrica ho imparato ad usare le macchine utensili. La metà di noi era ventenne o poco più e quando c’era la pausa mensa che durava un’ora e mezza si andava a giocare a pallone nei campi vicini, mentre l’altra metà che era ultra quarantenne faceva la pennichella in sala pranzo o nello spogliatoio. Erano tutti attrezzati di un lettino militare reclinabile.
Nel 1973 venimmo collegati dal sindacato dei metalmeccanici FLM, chiesero a me e ad altri due se volevamo occuparci dal punto di vista sindacale della nostra azienda, accettammo volentieri. Ricordo che ci fecero una breve riunione nella loro sede di Cascine Vica, frazione di Rivoli; là approntammo una rivendicazione sindacale relativa al premio di produzione. La richiesta avallata dalle assemblee e ufficializzata all’azienda non trovò il consenso del titolare, che era abituato ad avere un rapporto paternalistico con i dipendenti. Ricordo che riuscimmo a fare due scioperi di un’ora per sostenere la vertenza, ma nulla si mosse.
I colleghi chiedevano a me cosa bisognasse fare, io di rimando andavo al sindacato a chiedere lumi, questi scrollavano le spalle e sostenevano che bisognava fare altre iniziative che, detto per inciso, nessuno voleva più fare anche perché il titolare a coloro che avevano fatto sciopero non faceva fare più gli straordinari. La condizione di stallo andò avanti ancora per un paio di mesi, poi, un giorno, durante la pausa mensa vediamo arrivare il titolare che con fare perentorio buttò su un tavolo un mucchio di lettere dicendo: “avete chiesto il premio di produzione di 400.000 lire, io ve ne do 200.000: prendere o lasciare”. Io risposi: “lei deve trattare col sindacato, non accettiamo un una- tantum”. Non mi considerò nemmeno, riprese le buste in mano e incominciò a chiamare per nome, tutti presero la busta, io no. “Meglio questi che niente”, molti mi dissero. Io non risposi e tornai a lavorare. Non ci volle poi molto per avere il benservito dall’azienda, tempo sei mesi e mi trovai con una lettera di licenziamento in mano con motivazioni risibili ma comunque il sindacato disse che non era impugnabile.
Era il 1974, avevo 23 anni, alloggiavo sempre alla casa dell’operaio don Orione alle Vallette, giocavo a pallone, avevo una fidanzata, andavo a scuola serale per prendermi il diploma, non avevo timore di niente. Mi spacciai per fresatore, anche se avevo solo alcuni rudimenti scolastici e poco più, e risposi all’annuncio di una azienda che ne cercava uno. Quando andai a fare il colloquio dovetti confessare che non ero proprio un fresatore provetto, ma al titolare andava bene e mi assunse. Lì si facevano gli stampi per materie plastiche; in capo ad un anno imparai a lavorare su tutte le macchine utensili. Il lavoro mi piaceva, eravamo solo in quattro in uno stabile di via De Panis a Torino. La ditta si chiamava col nome del titolare, Michelangelo Girard s.n.c.. Eravamo molto affiatati e ci scambiavamo esperienze. Nel 1976 il titolare fa il grande salto industriale, affitta un capannone a Settimo Torinese, compra 6 presse ad iniezione per stampare con gli stampi che facevamo noi e assume anche altre due persone addette. Purtroppo il salto non ebbe successo e dopo due anni deve chiudere, lasciandoci tutti a casa.
Nel 1978, di nuovo, mi tocca cercare lavoro, metto una inserzione sulla Stampa come aggiustatore stampista, mi piovono addosso, ricordo, almeno 30 richieste, tra queste c’era anche la Carello. Mi sono molto divertito al colloquio con il responsabile dell’attrezzeria alla Carello, perché cercava di fare in modo che io rifiutassi l’incarico, dopo aver scoperto che mi avevano licenziato alcuni anni prima. Io dicevo “sì” a tutte le loro richieste. “Noi non possiamo darle la paga che richiede”, mi dicevano ed io rispondevo che non c’era problema. “Deve fare il capolavoro”, va bene gli rispondevo. “Purtroppo dobbiamo farlo tra Natale e Capodanno quando la fabbrica sta chiusa”, non c’è problema gli risposi. Definiamo i giorni ma, ovviamente, non andai. Avevo già scelto un’azienda che faceva stampi e stampava in un piccolo capannone di via Mario Ponzio a Torino, si chiamava Plast-Air e aveva circa 40 addetti. I titolari si chiamavano F. B. e M. L., con loro ci lavoravano anche i figli, F. figlio di L. si occupava di progettare gli stampi e, in generale, della costruzione stampi. L’altro, E., della parte commerciale dell’azienda. Il lavoro andava bene, ero gratificato dalla considerazione dei titolari ed anche dai colleghi di lavoro; mi ero sposato alcuni anni prima e avevo un figlio di due anni e, come si dice, avevo messo la testa a posto, prima di tutto la famiglia.
Due anni dopo mi iscrivo alla scuola serale Zerboni, in corso Venezia a Torino, per completare il quinto anno e prendermi il diploma di tecnico delle industrie meccaniche. Fu una bella sfacchinata perché avevo lezioni serali dalle 19.00 alle 22.00 tutti i giorni escluso sabato e domenica. Ricordo che di 16 allievi che frequentavamo solo 5 raggiungemmo la maturità. Ero euforico per il risultato raggiunto e sui due piedi decisi di frequentare l’Università.
Così a novembre del 1981 andai negli uffici amministrativi di via sant’Ottavio e mi iscrissi a Scienze Politiche. Gli orari delle lezioni erano dalle 18.00 alle 21.00. C’erano allora dei corsi propedeutici, una sorta di sbarramento per poter poi continuare gli studi. In cattedra di fronte ad una novantina di neofiti si alternavano il prof. Giorgio Rochat che insegnava storia contemporanea, il prof. Guido Neppi Modona che insegnava diritto e procedura penale, il prof. Franco Ferraresi, che insegnava sociologia e il prof. Franco Gaboardi che insegnava economia. A novembre 1982 questi quattro esami li avevo portati a casa anche con un discreto risultato. Al lavoro, appurato che ero iscritto all’università, i miei compagni trovarono logico che li rappresentassi sindacalmente e quindi, appena un funzionario Fim-Cisl collegò la fabbrica, mi elessero come loro rappresentante.
La Fim di Torino mi fece fare un seminario sulla contrattazione e spesso mi convocavano in via Barbaroux, dove c’era la sede centrale, per direttive e informazioni. I figli dei soci fondatori della fabbrica, sempre più non andavano d’accordo e di lì a poco uno di loro, F., vendette la sua parte ad un ex capofficina in pensione, che in poco tempo riuscì a distruggere quel patrimonio ultraventennale di conoscenze. Chi poté si trovò un altro lavoro, tra cui io, gli altri a settembre 1985 furono messi in cassa integrazione.


L’azienda Altissimo.

Iniziai a lavorare il 19 luglio 1985 nell’Azienda Altissimo. Produceva fanali per auto, a Moncalieri in strada Genova 216 ed aveva circa 500 dipendenti. Ricordo che risposi ad un annuncio della Praxi (agenzia di ricerca personale) sul giornale la Stampa. L’agenzia cercava un aggiustatore stampista, risposi alla richiesta e di lì a poco fui convocato. Mi spiegarono che l’azienda cercava personale, era un’importante azienda dell’indotto auto e che avevano bisogno di un ragazzo con esperienza. Andai il giorno successivo a colloquio con l’allora capo del personale Dott. A. P.. Mi fece alcune domande sul mio percorso di studi e di lavoro e mi propose di dimostrare le mie capacità lavorative presso un fornitore dell’Altissimo che faceva stampi. Accettai e il giorno dopo andai con il capo reparto dell’attrezzeria G. T. a dimostrare praticamente le mie capacità lavorative. L’esito fu positivo.
Quel giorno alle 8.00 mi presentai in portineria, il capo reparto dell’attrezzeria mi accompagnò dentro lo stabilimento e durante il percorso mi descriveva i reparti.
“Vedi alla nostra sinistra ci sono gli uffici - mi disse - il reparto dove devi lavorare è lì in fondo”, indicandomi con la mano un punto indeterminato del lungo corridoio che avevo davanti e che, scoprii dopo, tutti chiamavano via Roma. Scendendo lungo il corridoio mi descriveva i reparti: l’area magazzini, un ampio spazio pieno di grigliati, cassoni e scatole, seguiva l’illustrazione dei reparti produttivi, prima veniva il montaggio, poi la verniciatura ed infine lo stampaggio. Fuori da questa struttura ce n’era un'altra più piccola dove vi erano gli spogliatoi divisi per maschi e femmine e, di lato, la mensa.
Tornammo indietro ed entrammo nel reparto Attrezzeria. Era situato di fronte al reparto Plastica, dove avveniva lo stampaggio del materiale plastico che fuso a circa 300 gradi entrava nello stampo, ne riempiva l’impronta e, una volta solidificata, veniva estratto il manufatto. Io come altri ero addetto a mantenere in efficienza gli stampi, che erano manufatti complessi in acciaio con un peso di diversi quintali e quindi per lo spostamento degli stessi si usavano dei trasportatori o manuali o elettrici, “i muletti”. Ogni aggiustatore aveva il suo banco da lavoro in ferro imbullonato a terra con la morsa anch’essa fissata sulla parte destra del banco, con tutto l’occorrente per lavorate il ferro e per smontare lo stampo, davanti al banco c’era un banchetto di due metri per uno, alto circa 80 centimetri, che serviva a depositare lo stampo in lavorazione. Eravamo 10 aggiustatori, 2 tornitori, 2 fresatori e 4 attrezzisti che si occupavano della costruzione e manutenzione delle attrezzature di produzione, coordinati dal responsabile G. T..
La mia idea di allora era di trovare un’azienda abbastanza grande che mi desse delle opportunità una volta laureato, e su questo ci ero riuscito. Avevo ancora 3 esami da dare e stavo predisponendo una tesi sul “brigantaggio meridionale”, purtroppo di lì a poco dovetti rendermi conto che nessun docente sia della mia facoltà, che di quella di lettere, era interessato a questo argomento.
Scoprii ben presto che la qualità della vita lavorativa in quella fabbrica era molto alta e ciò era dovuto alla contrattazione che si era fatta fino a quel momento: il delegato del reparto V. M. mi illustrò in merito. Un giorno V. mi accompagnò nella Sede Sindacale interna, dove si svolgeva il Consiglio di Fabbrica, ebbi quindi modo di vedere la mole di accordi e la documentazione inerente all’azione del Consiglio di Fabbrica dell’Azienda Altissimo.
Mi venne allora l’idea di sostituire all’argomento del brigantaggio meridionale che non aveva avuto interlocutori interessati e competenti, con quello della storia contrattuale dell’Altissimo. Andai con entusiasmo e solerzia a raccontare quella storia sindacale alla professoressa Dora Marucco, proponendola come lavoro di tesi; lei accettò ed io mi misi subito all’opera per catalogare i documenti presenti e cercarne altri nelle sedi sindacali di categoria.
Nel 1987 si rinnovò il Consiglio di Fabbrica e, avendo io con i miei studi acquisito ampia conoscenza delle problematiche aziendali, mi fu proposto dalla Fiom-Cgil di candidarmi per essere eletto delegato sindacale in loro rappresentanza. Accettai quella proposta con piacere ed ecco che fui eletto delegato dei reparti ausiliari.


La laurea.

Mi laureai Il 28 novembre 1988. Quel giorno, con i miei parenti e, accanto, mio figlio dodicenne, nella Sala Lauree di Palazzo Nuovo, sede della Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, discussi la mia tesi.
C’era un grande tavolo ovale dove mi fecero accomodare. Di fronte a me c’èra il Presidente della commissione di laurea Prof. Giangiacomo Migone, al mio fianco la mia relatrice Prof. Dora Marucco, docente in storia del sindacato, altri 9 docenti sedevano intorno al tavolo, gli uditori sedevano alle mie spalle attenti nell’ascolto della mia esposizione. L’introduzione fu fatta dalla relatrice che lodò la ricerca che svolsi sul campo. Emozionato, al termine del suo discorso, iniziai a parlare “La contrattazione aziendale negli anni 80, il caso Altissimo” il titolo. Era una tesi sulla storia del Sindacato, una ricerca fatta sulla documentazione copiosa che avevo trovato in fabbrica, nella Sede sindacale dell’Altissimo, integrata con la ricerca in altri fondi archivistici sindacali di Torino quali quello CGIL presso la Fondazione Gramsci, quello della CISL presso la Fondazione Nocentini e quello della UIL presso l’Istituto Salvemini.
Dapprima avevo creato un archivio per temi sui documenti rinvenuti, denominato “Archivio del Consiglio di fabbrica Altissimo”, poi avevo descritto questa insolita esperienza di contrattazione sindacale aziendale che portò il Consiglio di fabbrica a poter contrattare tutti gli aspetti lavorativi nella fabbrica Altissimo, elevando, di conseguenza. la qualità della vita di lavoro. Tutto ciò era, di fatto, un’anomalia, poiché il contesto sociale e sindacale che caratterizzava i primi cinque anni degli anni ’80 era difficile ed ostativo per i lavoratori e per i sindacati confederali.
Le cause che segnarono pesantemente la società del lavoro in fabbrica furono la sconfitta sindacale sulla vertenza Fiat, promossa dalla “marcia dei quarantamila” e la politica svolta dalla Fiat stessa che contrastava con forza la contrattazione aziendale sul territorio torinese, specie nel settore industriale e soprattutto nel settore della componentistica auto.
In Altissimo, azienda metalmeccanica del settore della componentistica auto, primo fornitore di fanaleria Fiat, in questo quinquennio ci furono circa 150 accordi sulla condizione di vita e di lavoro in fabbrica che facevano la differenza rispetto alla negativa situazione generale. Su questo ho sviluppato la mia tesi di laurea, riscuotendo il plauso della commissione per l’inedito tema e mi dichiararono Dottore in Scienze Politiche.


Il laureato.

A quella data erano tre anni che lavoravo presso la fabbrica Altissimo di Moncalieri, dove, come detto, si producevano fanali per auto, ero in organico nel reparto Attrezzeria con mansioni di aggiustatore stampista. Quando tornai al lavoro, il giorno dopo il conseguimento della laurea, trovai sul mio banco un’incisione su ferro con scritto “scrivania del Dottor A. Sorella”. Tutti i miei compagni aspettavano la mia reazione; io, con calma, chiusi la targa nel cassetto e mi girai, con le mani presi un po’ di grasso che usavo per gli stampi e me lo strofinai in faccia e dissi “Sono e sarò un operaio come tutti voi”, ci furono degli applausi, poi ad uno ad uno vennero a congratularsi con me facendo qualche battuta, ricordo uno che mi disse “ti sei laureato con la nostra storia, dottore”. Da quel giorno mi chiamarono Dottore, ero il loro delegato da due anni.
Qualche mese dopo la laurea fui chiamato dal capo del personale Dott. A. P. che si complimentò con me per il risultato e senza mezze parole mi disse che per me c’era un posto interessante tra gli impiegati, la condizione erano le mie dimissioni da delegato sindacale della Fiom-Cgil. Rifiutai il ricatto sostenendo che non c’era scritto da nessuna parte che avrei per forza essere un impiegato e non più un operaio.
Gli avvenimenti che si sono succeduti negli anni furono tanti e mai a mio favore, mi preme qui rilevare che ci tenevo, nei fatti, a svolgere il ruolo di rappresentante sindacale senza andare a scapito dell’attività professionale che esercitavo nel reparto attrezzeria. Molte volte l’azienda ha teso a penalizzarmi con cambi di mansioni e richiami verbali del tutto senza senso.
Nel 1991, a seguito di una riorganizzazione dall’attrezzeria passai nel reparto Qualità, all’accettazione materiali. Vista la mia rapida acquisizione di conoscenze, dovute anche alla mia maggiore scolarità, di li a poco passai a ricoprire il ruolo di Ispettore di Qualità sia verso i fornitori che verso i clienti. Ricordo che l’allora responsabile dalla qualità Sig. E. M., che mi teneva in buona considerazione, mi fece stampare 1000 bigliettini da visita con il logo dell’Altissimo e il mio nome preceduto dal termine dottore. Questo fatto accese le ire del mio responsabile Sig. F. C. che, per parecchio tempo, mi è stato dietro e controllava i miei spostamenti, facendo la differenza tra quelli di lavoro e quelli in permesso sindacale. Ci trasferimmo a Grugliasco e lì continuai a lavorare nell’ambito della qualità fino all’arrivo del Dott. M. che, da subito, mal digeriva il fatto che i lavoratori della Qualità ascoltavano più me di lui; così dopo un acceso dibattito tra noi due relativamente al ruolo e competenza del responsabile, fui trasferito di reparto.
Approdai quindi in Manutenzione. “a fare che?”, chiedo al responsabile W. B.. “Non lo so ancora – rispose - mi hanno accennato ad una riorganizzazione del magazzino come il nostro di Tolmezzo, per adesso siediti dietro quella scrivania e poi vediamo”. Il giorno successivo il capo del personale Dott. A. mi esplicitò il suo pensiero: “dobbiamo organizzare il magazzino dei prodotti ausiliari come a Tolmezzo, quindi si organizzi. Vada a Tolmezzo per qualche giorno, si interfacci col responsabile del magazzino, si faccia dare le procedure ed inizi il lavoro qui, a cominciare dal trasferimento del magazzino di Moncalieri”. Fu quello che feci ed anche bene ritengo.
Nel settembre 2000, a ridosso delle elezioni delle RSU, mi chiama il capo del personale e mi comunica che dal 1° settembre ero passato d’ufficio impiegato di 5° livello. “Io non Le ho chiesto niente” dissi. “Lo facciamo perché abbiamo apprezzato il suo lavoro col magazzino”. “Lo fate talmente bene che mi retrocedete di categoria, volete per caso una denuncia? Io ho il 5° livello super che per gli operai si chiama l.a.s. (lavoratore altamente specializzato)”. “Non c’è problema - rispose imbarazzato - dal mese prossimo sarà di 5° super, lo dico alla segretaria”. Il motivo di questo passaggio era ovvio, volevano provare a non farmi eleggere tra gli impiegati, visto che gli operai non potevano più votarmi a causa di questo passaggio di qualifica da me non voluto. A dispetto di quell’abuso di potere, il risultato elettorale da me conseguito tra gli impiegati fu positivo e quindi diventai il loro rappresentante sindacale.
Nel 2004 sottoscrivemmo un accordo di trasferimento a Venaria con annessa richiesta di mobilità. Verso la fine dell’anno mi chiamò il capo del personale Dott. L., giovane rampante che aveva sostituito A. e mi disse: “Senta Sorella, a Venaria non c’è posto per lei. Le propongo di aderire alla mobilità: lei ha i requisiti, in capo a 4 anni si ritrova in pensione e si gode la vita”. Rifiutai anche se l’azienda era disposta a darmi un sostanzioso contributo come “incentivo all’esodo”, definizione dell’epoca. A Venaria misi piede nel settembre 2005, fui uno dei pochi che non conservò il suo lavoro, mi collocarono nell’ufficio del laboratorio chimico.
Ovviamente non sapevo niente di quel lavoro. Anzi no, qualcosa sapevo, poiché la mia precedente permanenza di otto anni in qualità, al mio ingresso in manutenzione mi avevano portato a collaborare con questo Ente. Dunque cominciavo quasi dall’ABC. Un collega con 30 anni di anzianità mi spiegava il lavoro che dovevo svolgere “controllo di processo” . Si trattava di prelevare dei pezzi in produzione a cadenza definita e sottoporli a prove su attrezzature complesse, il giudizio di conformità dapprima spettava a lui, in seguito lo emettevo autonomamente. Nei successivi due anni ho imparato ad usare strumenti complessi quali lo spettofotometro che misura la “riflettenza” e la “trasmittanza” delle luci riflesse su un provino definito di materiale stampato. Il Karl Fisher, strumento complesso che misura il grado di umidità dei solidi e dei liquidi ed altri ancora.
Il 1° ottobre 2007 il mio collega che svolgeva attività di test su materiali a capitolato clienti, qualificazioni di prodotto, tarature strumenti accetta la mobilità ed esce dall’azienda. Al suo posto viene inserito uno stagista, con un contratto annuale, a cui affidarono il compito di ricerca di nuovi materiali, mentre il resto del lavoro dell’ex collega viene affidato a me.
La mia esperienza su vari campi lavorativi e la mia elasticità mentale derivata, credo, dagli studi superiori fatti, hanno fatto sì che in breve tempo acquisissi quegli elementi di conoscenza che mi permettevano di svolgere anche quel lavoro senza il bisogno di un affiancamento, ero autonomo. Al collega andato in mobilità era stato riconosciuto il 6° livello; in considerazione del fatto che il CCNL definisce che chi svolge un lavoro di livello superiore per 6 mesi continuativi ha il diritto al passaggio di livello. Infatti, chiesi dopo sei mesi il 6°, livello visto che avevo il quinto super, ma dopo un anno dalla richiesta, visto che non venivo preso in considerazione, inoltro vertenza per dequalificazione professionale, era la fine del 2008.
Gli anni successivi, fino al 2012, passarono con vessazioni continue da parte dell’azienda. Il costante ricorso alla cassa integrazione in quegli anni fecero di me il bersaglio principale, l’utilizzo della cassa da parte degli impiegati fu il 20% del richiesto, io siccome ero delegato Fiom-Cgil, avevo denunciato l’azienda, organizzavo scioperi ed altro ero premiato con l’80% della cassa richiesta. A fine gennaio, avendo maturato i requisiti per la pensione, detti le dimissioni. La vertenza andò stancamente avanti fino a fine 2012 e si concluse con una transazione. Avevo 60 anni e un grande bagaglio di conoscenza che di li a poco misi a disposizione del sindacato pensionati della Cgil.

Dicembre 2019
Antonio Sorella


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