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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 7/10/2017 ● Click 1841

Il piacere antico di fare il vino in casa


Arcangelo Pretore © FUORI PORTA WEB

E’ tempo di transumanza con le ultime greggi che ancora attraversano “sciaguratamente” anche all’interno del complesso archeologico d’epoca romana di Sepino le strade lastricate e, perfino la “Porta di Bojano, per la felicità “videns” dei telespettatori del Tg3 Molise . E’ tempo di vendemmia e, come da tradizione familiare , da anni la raccolta dell’uva per me rappresenta un fare materiale che ho recuperato da quando ,conclusa la lunga transizione giovanile del periodo milanese, ho maturato l’idea di reimpiantare sul terreno di famiglia un vigneto ( nonché un uliveto) . Un convincimento rimuginato a lungo , forse anche favorito , per reazione alle opprimenti , ma allora comode , discese quotidiane nei tunnel artificiali delle sempre affollate linee metropolitane che dalla Stazione Garibaldi mi lasciavano emergere alla luce alla fermata di piazza Piola, zona Città Studi. Un riquadro di viti né grande né piccolo , sufficiente alle esigenze familiari , poi della famiglia allargata o poco più . Un impianto a tendone tirato su con il provvido aiuto di Pietro e Gigino D’Ambra , cari amici di contrada e d’infanzia che mi stupirono quando osservai che nello stabilire gli angoli retti della struttura , sul campo , applicavano in pratica il teorema di Pitagora scegliendo una terna pitagorica ( 3,4,5 o 3,8,10 dimensionata in metri…) . Ho messo a dimora vitigni innestati di uve bianche : Trebbiano e Malvasia e , alcune file di Montepulciano , quest’ultimo di un rosso intenso e corposo che se talvolta per distrazione se ne sversano anche poche gocce la macchia rossa che si forma si espande in modo esagerato impiastricciando tovaglia e tovaglioli, tant’è che in passato generalmente era in uso imbandire le tavole contadine con le classiche tovaglie a riquadri rossi per tentare di confonderne le macchie del tosto,robusto Montepulciano . Nell’alternarsi dei cicli delle stagioni ,dal risveglio primaverile delle viti, dopo il lungo periodo di dormienza invernale , fino alla invaiatura e alla maturazione estiva dell’uva , alla sua raccolta autunnale mi occupo delle pratiche colturali che mi consentono ogni anno di farmi il vino in casa ( sul bioritmo annuale delle piante , in accordo con i nostri orologi biologici interni e con i moti cosmici, molto di più avrebbero da dire i tre scienziati freschi del Nobel per la medicina per la scoperta epigenetica dei bioritmi in natura). Così ,dicevo ,da tempo , m’invento produttore di vino per il consumo familiare a chilometri zero ( una imbecillità aritmetica e dimensionale che se fosse vera: produzione , lavorazione e commercio della materia prima e/o dei suoi derivati dovrebbero trovare una pronta sintesi sul tavolo della cucina): una locuzione bio diventata d’uso comune . In effetti abitando , per scelta in campagna la vigna la osservo nei suoi lenti mutamenti vegetativi sia durante le ripetute lavorazioni sia dagli ambienti di casa e trovo, che in effetti, le mie uve maturano a meno di poche decine di metri dalla cantina dove dopo la raccolta,subito , prima che si inneschino inopportune fermentazioni , vengono trinciate , deraspate , fatte fermentare e decantare , poi torchiate per diventare prima mosto e, in un lasso di tempo relativamente breve , vino . E’ quella della mia limitata produzione di vino un’effettiva filiera corta che controllo per intero : dalla concimazione all’erpicatura ; dalla spampinatura dei tralci superflui ai ripetuti trattamenti con ossido o solfato di rame e zolfo , talvolta con un anti botritico (contro il marciume dell’uva) al fine di ottenere grappoli sani , ma non bio , poiché comunque trattati ( anche il rame,noto antibatterico e fungicida è un metallo potenzialmente tossico , così come lo è il non- metallo zolfo, per non parlare poi della nocività dei fitofarmaci sistemici… ) poiché , pur avendo svolto un’altra professione, che non implicava alcun legame con la terra , non ho voluto che si estinguesse una tradizione familiare: quella di farsi il vino in casa , la stessa che aveva praticato mio nonno, poi mio padre e che io, con buona pace delle eredità culturali oralmente tramandate ( nonché colturali) avrei potuto tranquillamente smettere, senza che mi si rinfacciasse alcunché,” tant jev d’ pann”, diceva mia nonna Carolina . Per averlo , da tempo messo in pratica , mi preme qui rilevare che avendo volontà ( e pochi mezzi meccanici di supporto alla produzione e, comunque, in assenza di questi ultimi è sempre possibile ricorrere al conto terzi, al prestito solidale degli attrezzi ) , mettendoci impegno ( lo richiede la specificità “tignosa” della coltura ) è ancora possibile avendo a disposizione un piccolo fazzoletto di terra ( il nostro territorio comunale è noto per essere quello più esteso della Regione ) per diventare produttori in proprio di piccole partite di uve. Portare a tavola alcuni prodotti genuini della propria terra , che spesso è la stessa terra che ereditiamo attraverso il lavoro degli avi “incarnato “ metaforicamente nei fusti contorti degli ulivi secolari , delle querce centenarie che in passato davano ghiande per i maiali e legna da ardere ( la oramai loro dignitosa maestà è solo un ricordo poiché nelle campagne sono state divelte a centinaia per dare spazio alle monocolture) ai fichi, melograni, cotogni, al regale portamento del sorbo e, a quant’altro di frutta rustica al limite del selvatico , piantato dal nonno e che a sua memoria sono riuscito a conservare. Mi piace in questo periodo assaporare il gusto inimitabile , dolciastro del mosto ( ricordo un medico che abitudinario in passato scarpinava in camminata veloce sulla strada vicino alla mia abitazione , avendo saputo che avevo il mosto “fresco”, a garganella , se ne scolò un mezzo fiasco lasciandomi di stucco per la temeraria l’impresa ) in fermentazione che tumultuoso ribolle nei tini ; sentire il clic-clac del torchio meccanico che spreme l’ultimo succo d’uva dalle vinacce . Mi piace riempire le damigiane ( di vetro perché inerte alla relativa acidità del mosto e poi del vino) di mosto ancora effervescente nell’attesa della calendarizzata , scaramantica data di S. Martino ( il giorno della trasmutazione del mosto in vino ? che poi in effetti è solo il tempo ,variabile da mosto a mosto, in cui i lieviti ellittici hanno consumato gli zuccheri : glucosio e fruttosio trasformati in alcool che ,infine , “sconsolati” ,non avendo più risorse alimentari , rimangono uccisi dall’igienizzante alcool formatosi, per poi decantare in feccia, eliminati nei primo travaso). L’acqua e l’alcool , miscibili in qualsiasi proporzione sono i componenti base del vino ; le irripetibili caratteristiche organolettiche del vino derivano in parte dalla particolare geografia di produzione , quindi dai tannini, dagli acidi e da tante altre sostanze che ne caratterizzano il ” bouquet” . Mi piace pensare che il vino che porto a tavola ogni giorno viene dalla terra di cui mi occupo personalmente (per hobby?!) . Un vino in genere quantitativamente sufficiente per il consumo familiare che viene da quella semplice filiera corta che controllo ad ogni passaggio . Concludo questo forse un po’ inusuale scritto marcatamente autobiografico citando me stesso richiamando qui un articolo che scrissi per “Fuoriporta” ( senza Web), il periodico cartaceo edito a Guglionesi , alla cui redazione insieme ad alcuni amici ho contribuito in passato : un’esperienza importante , oggi superata dal Web . In quell’occasione , profittando della recensione dell’accattivante libretto di poesie “ Tufo e gramigna “ del Prof. Filippo Salvatore, nostro compaesano emigrato in Canada , suggerivo una maggiore frequentazione scolastica dei nostri scrittori locali,anche per evitare di affidare alcuni aspetti del passato alla sola labile e spesso frammentaria memoria orale . L’invito, quando scrissi l’articolo, più a carattere più culturale che pratico per via intagli poetici trattati rappresentava un lieve e accorato monito che auspicava un necessario e salutare ritorno alle radici , alla tradizione . Oggi, invece, guardo con maggiore attenzione ad una tradizione avente per oggetto la cultura materiale tramandata fonte di un recupero identitario , che denso di pratiche reali occupa in modo alterno e irregolare parte del mio quotidiano e in modo non secondario fa capo anche alla necessità di produrre, cogliendo la possibilità di influire direttamente sul controllo della qualità di beni di prima necessità , come può ritenersi un buon bicchiere di vino , che soprattutto in passato , insieme al pane erano le prime sostanze ad essere portate a tavola ( come del resto è consuetudine nella ristorazione commerciale ) . Mi piace occuparmi del recupero di parte della cultura contadina , che è possibile mettere in “campo” anche a lato del lavoro istituzionale che ciascuno abitualmente intraprende . Me ne occupo perché , come titolavo allora l’articolo prima citato, prendendo a prestito una canzone del cantautore folk statunitense Woody Guthrie :” questa terra è la mia terra!”... Lo è sia perché mi è stata tramandata sia perché in senso più espanso e globale il controllo e la sua “manutenzione “ locale e globale dell’”arancia blu” ( la terra vista dallo spazio) che ci ospita rappresenta un nostro impegno etico per la conservazione della sua meravigliosa biodiversità nonché un diritto per le generazioni future che la erediteranno a goderne.


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