6/9/2014 ● Cultura
"La Chiesa locale nel Settecento: appunti di vita materiale a Guglionesi" [I parte]
LA CHIESA LOCALE NEL SETTECENTO: APPUNTI DI VITA MATERIALE A GUGLIONESI
di Sergio Sorella
[I parte] - Anche a Guglionesi la storia locale negli anni si è arricchita di
contributi che aggiungono tasselli preziosi al mosaico sullo studio del passato.
Numerosi studiosi, con il loro lavoro, spesso da neofiti volenterosi e con la
proverbiale pazienza certosina, stanno gettando i semi per una proficua
ricostruzione storiografica. Mancano ancora contributi sistematici che riescano
ad essere riferimenti utili per analisi di lungo periodo. Ma il lavoro è a buon
punto.
In questo filone vorremmo inserire un altro elemento di riflessione. Si tratta
di appunti sulle condizioni di vita materiale del clero e sul ruolo che la
chiesa di Guglionesi ha avuto nel Settecento.
La storia della chiesa locale è cadenzata da uomini che hanno lasciato un segno
della loro azione pastorale. Per Guglionesi partiamo dal vescovo Cesare
Ferranzio1. Egli vi risiedeva abitualmente; fu uomo di lettere e
teologo conosciuto, partecipò al Concilio di Trento pronunciando una Oratione
che pubblicò a Brescia nel 1562; prese parte all’XI Concilio provinciale della
regione beneventana; fondò, nel 1585, a Guglionesi, dove risiedeva abitualmente,
un luogo in cui venivano istruiti i chierici cercando, in tal modo, di adempiere
ai dettati tridentini2. Fu il primo vescovo della diocesi di Termoli
a scrivere la relatio ad limina3. In essa ha lasciato una
testimonianza dei problemi che il suo ministero comportava, nonché uno spaccato
delle condizioni religiose e materiali esistenti nella diocesi. Da allora, le
relationes ad limina furono compilate con una certa regolarità dai vescovi della
diocesi. Si tratta di strumenti utili allo studio della realtà diocesana sia dal
punto di vista sociale che religioso.
A descrivere l’incontro avuto con il vescovo Ferranzio, fu il domenicano
Serafino Razzi, il quale alcuni anni prima, il 18 febbraio del 1577, era andato
dal vescovo per ricevere da questi l’autorizzazione e la benedizione per
iniziare «le sacre predicazioni». Dopo averla ottenuta, tornò a Termoli ed
alloggiò nell'episcopio. Il 20 febbraio 1577 avviò gli esercizi quaresimali4.
Si ha testimonianza, dunque, di una permanenza, che sappiamo non occasionale,
dei vescovi a Guglionesi. Ciò comportava delle conseguenze non solo sulla vita
religiosa ma anche su quella civile della comunità.
Nel Seicento, anche dal punto di vista delle strutture ecclesiastiche, si ebbe
un indubbio momento di decadenza; mancano i luoghi della fede, quelli esistenti
avevano bisogno di risorse per essere ristrutturati che difettavano pur per le
difficoltà economiche complessive in cui versava la città. Solo verso la fine
del secolo, con il vescovo Michele Petirro, ci fu una ripresa devozionale; con
il
suo energico episcopato rappresentò il momento di svolta nei rapporti tra
vescovo e chiesa locale5. I luoghi del culto erano numerosi. Il
vescovo Petirro nella relatio del 1693 ricorda che oltre alla chiesa si S. Maria
Maggiore, vi era quella di S. Nicola, la chiesa di S. Donato, retta dal canonico
primicerio, quella dei SS. Cosma e Damiano, la Chiesa di S, Michele, officiata
dalla Congrega dei morti, quella del Rosario, di S. Antonio abate con annesso
ospizio per i pellegrini, la chiesa di S. Chiara, un tempo dei canonici
lateranensi. Tra le chiese extra moenia vi erano: il monastero dei Celestini con
la chiesa dell’Annunziata, esente dalla giurisdizione dei vescovi, il convento
dei Cappuccini, il convento dei Francescani che officiavano nella chiesa di S.
Giovanni6. Un fermento religioso che aveva visto anche il sorgere di
un seminario o comunque di un luogo nel quale venivano istruiti i chierici.
1. Statuti del Capitolo di S. Maria Maggiore
La chiesa meridionale nel primo Settecento si presenta con un accresciuto numero
di chierici, con pratiche devozionali che richiamano tanti fedeli, con la
costruzione di nuove chiese, la ristrutturazione di quelle vecchie, lo sviluppo
delle confraternite e dei nuovi centri devozionali7. Fu Benedetto
XIII, il Francesco Orsini che da arcivescovo di Benevento aveva imposto a tutti
i capitoli di dotarsi di uno statuto nel concilio provinciale del 16938,
a dare, negli anni venti, una sterzata all’organizzazione della chiesa9.
Le strutture in cui la chiesa si articolava a livello locale, erano espressione
diretta della chiesa ricettizia10 in cui i sacerdoti risultavano
usciti dai ranghi di coloro che, in misura maggiore o minore, appartenevano a
famiglie proprietarie terriere. Il sacerdote membro del Capitolo aveva il ruolo
di colui che celebrava la messa privatamente, titolare di cappellanie e di
legati vitalizi senza ulteriori obblighi di cura. La cura delle anime e gli
adempimenti ecclesiastici erano cadenzati dagli Statuti del Capitolo di S. Maria
Maggiore e dai libri parrocchiali. Da essi traspare la ritualità nel periodo ed
il rapporto coi i fedeli dei sacerdoti capitolari. Accanto al clero vi erano le
confraternite, associazioni di carattere religioso, espressione di una realtà
devozionale in continua evoluzione. Infine, gli ordini monastici esercitavano la
loro funzione in maniera rilevante.
Dunque un elemento rilevante, già presente alla fine del Seicento, è la
riorganizzazione della chiesa locale su basi gerarchicamente definite. Terminato
il periodo buio del secondo Seicento, sulla spinta anche di una crescita
demografica, si afferma gradualmente la diffusione capillare della presenza
ecclesiastica che, avendo scalzato una certa invadenza monastica, recupera un
ruolo egemone nel rapporto con la fede11. Gli aspetti devozionali
trovarono una loro sistematizzazione negli Statuti del capitolo della chiesa; in
essi si precisarono gli obblighi dei sacerdoti e la consistenza patrimoniale
della chiesa locale. Particolarmente interessanti, per lo studio degli
adempimenti religiosi e del rapporto con i fedeli, questi Statuti, a Guglionesi,
furono redatti nel 171612. Essi ricordano le origini della chiesa
ricettizia locale composta da 12 canonici.
L’arciprete era la prima dignità. La seconda era il primicerio. Poi
c’erano il procuratore ed il decano il quale non aveva dignità ed uffici; gli
altri erano semplici sacerdoti senza insegna. «L’Elezione dè quali da tempo
immemorabile è stata ed è del Capitolo»13.
I compiti dell’arciprete erano così sintetizzati: «A lui spetta la cura delle
anime e l’amministrazione dei sacramenti, la tenuta dei libri parrocchiali, le
chiavi dell’Archivio dove si conservano le scritture del Capitolo e della
chiesa». A lui competevano i proventi della stola. Il 25 aprile, il giorno di S.
Marco, doveva procedere alla benedizione delle campagne, doveva celebrare messa
nei giorni in cui c’erano le processioni e le festività, quali: l’Epifania:
«nella Purificazione della B.V. ai 2 di febbrajio (…) benedizione di Candele,
processione e messe», le Ceneri, le Palme, la settimana Santa con processione il
giovedì, l’Ascensione con processione e messa, il giorno del Corpo di Cristo,
«primo e secondo Vespero, Officio processione e messa nel giorno dell’Ascensione
della Beata Vergine à 15 officio e messa con processione, tutti i Santi, i morti
e a Natale con messa cantata la notte»14. Inoltre l’arciprete aveva
l’obbligo di officiare settimanalmente nelle varie chiese del paese, aveva la
presidenza del coro, stabiliva l’ora delle processioni e dava la licenza per
suonare le campane per la morte di «qualcheduno forestiero o cittadino seguita
fuori della Patria»15.
Il primicerio sedeva nella prima sedia a sinistra del coro. Le sue
funzioni erano quelle di far osservare le regole nella celebrazione degli uffici
divini affinché «regnasse il buon ordine nel salmeggiare» ed era responsabile di
tutto il rituale religioso, sia in chiesa che durante le processioni; doveva
organizzare, con la dovuta solennità, le messe cantate; deteneva la custodia
delle reliquie ed una copia della chiave dell’archivio. Il suo era un compito
rivolto soprattutto agli aspetti organizzativi della vita dei sacerdoti, con
funzioni specifiche ed autonome. Era coadiuvato da un maestro di cerimonie
eletto dal capitolo ogni anno il primo novembre. Organizzava i riti religiosi,
attribuiva compiti ai chierici durante le messe cantate. Distribuiva «gli assi
del baldacchino durante le processioni al Governatore e uomini del governo che
si trovavano in chiesa»16.
Gli uffici di pietà dovuti dai sacerdoti erano così ripartiti: se qualche prete
era infermo «tutti li preti del capitolo con la cotta debbono andare
accompagnare il SS.mo e l’estrema unzione». Al prete infermo venivano date,
anche anticipatamente, le rendite spettanti e quando moriva l’evento veniva
annunciato con suoni di campane più prolungati degli altri.
Il procuratore era eletto dal Capitolo per gestire la proprietà
ecclesiastica e della sua amministrazione doveva rendere conto al vescovo.
Inoltre venivano eletti: il procuratore di S. Antonio abate che amministrava le
rendite di quella chiesa e dell’ospedale annesso ed il sagrestano. La parte
degli Statuti dedicata allo stato delle rendite ed alla loro divisione, con
relativa distribuzione tra i capitolari, è molto dettagliata. La somma totale
(detratta delle provvigioni spettanti ai sagrestani delle chiese di S. Maria
Maggiore, di S. Pietro e di S. Giovanni) veniva divisa a metà: una parte al
Capitolo e la restante alla chiesa ed al vescovo. In oltre vi era la riscossione
della decima sul mosto: «Si esigge una salma per ogni trenta che, giusto il
computo dell’anno passato (1714) 6.600 salme (…) In agli mezza carafa per
imposta di decima e secondo il computo dell’anno passato sono imposte 440 che
importano carafe 220».
Nel mese di luglio il procuratore del Capitolo e quello di S. Antonio abate
calcolavano le decime del grano e dell’orzo spettanti ai preti e procedevano
alla relativa divisione in parti eguali. Stessa divisione veniva fatta per i
terraggi ricavati dalla semina dei terreni del Capitolo. Le colture prevalenti
erano grano e fave. I proventi dell’orzo, essendo pochi, venivano usati per
acquistare la legna per il fuoco «per la sagrestia in tempo d’inverno». In
ottobre, dopo la vendemmia, il procuratore andava «misurando tutti i vini»,
annottando il numero delle botti di vino prodotto ed i proventi spettanti al
Capitolo. Coloro che non pagavano -per diverse ragioni- la decima, si
obbligavano comunque a versare due carlini ai sacerdoti. Per le decime dell’olio
era compito del procuratore trascrivere «tutte le partite dell’ulive che vanno a
macinare né trappeti».
Le entrate dei censi della massa comune maturavano il primo giorno di novembre,
«li grani e decime dè terraggi alla fine di agosto. Li terraggi delle fave alla
fine di giugno; il mosto delle decime alla fine di ottobre, l’oglio delle decime
alla fine di dicembre»17. La prestazione delle decime rappresentava
una tassa annuale che la popolazione era tenuta a versare alla chiesa sui
prodotti della campagna. A Guglionesi ciò consisteva, a partire dal 1690, nel
pagare quattordici misure a versure di grano, legumi ed altri generi aridi,
«mezza carafa di olio per ogni imposta ed una soma di vino per ogni dieci»18.
L’elenco minuzioso delle decime spettanti al Capitolo rappresenta un documento
prezioso; oltre ad essere parte del reddito dei preti, è anche un interessante
contributo per lo studio dell’economia locale. Emergono i quantitativi di
produzione, la redditività dei terreni, le colture praticate, i pesi a cui era
soggetta la collettività. Ma attraverso la catalogazione attenta delle decime si
poneva ordine ad una materia che spesso dava adito a contrasti, ma che,
nell’ambito di un’economia di sussistenza, rappresentava un indispensabile mezzo
di sostentamento del clero locale. Per cui tutte le entrate dovevano essere
sottoposte ad un rigido controllo al fine di evitare esenzioni considerate
indebite, peggio ancora soprusi, e porre fine agli inevitabili litigi. Sui censi
percepiti il Capitolo doveva celebrare le messe corrispondenti, pertanto tutti
gli importi venivano divisi e dunque niente restava in cassa.
Gli Statuti dedicano un certo spazio -poco in verità- agli Uffici divini. Si
ricordava che «Tutti li dodici preti sono in obbligo quotidiano di cantare, o
recitare li Divini Uffici secondo li tempi e le solennità e di assistere al Coro
con la cotta durante li Divini Uffici». Coloro che mancavano erano soggetti alla
puntatura 19 (sanzioni pecuniarie) ed alla perdita dei frutti
spettanti per il periodo di assenza. Gli impegni quotidiani erano così
riassunti: «il mattutino, le laudi, i vespri e la compieta». Le sanzioni per la
mancata presenza era di un tornese. L’assenza dalla messa cantata costava cinque
grana e l’astensione dalla processioni nei giorni dell’Ascensione, nei due di S.
Adamo e dell’Assunzione, costava cinque grana per volta. L’assenza all’ufficio
della notte di Natale ed a quello cantato dei morti costava rispettivamente, tre
e due carlini. Il sagrestano aveva il compito di suonare la campanella del
vespro mezz’ora prima della funzione religiosa prescritta. La disciplina del
coro era espressamente organizzata unitamente ai giorni in cui si cantava la
messa conventuale20 .
Ogni terza domenica del mese si faceva la processione del Venerabile intorno
alla chiesa madre, subito dopo la messa cantata. Il Capitolo attribuiva molta
importanza a questa ritualità, tanto che stabiliva specifici modi di comportarsi
e pesanti sanzioni per chi non vi si atteneva scrupolosamente o, senza motivo,
disertava l’impegno. Inoltre i sacerdoti erano invitati a tenere comportamenti
consoni nelle processioni e nei funerali rispettando l’ordine e la gerarchia.
Le elezioni dell’arciprete e del procuratore avvenivano con voto segreto e con
la maggioranza assoluta dei votanti. Il Capitolo si riuniva su richiesta del
procuratore «o per dar denaro a censo o far contratti» alla fine della compieta.
Nei casi urgenti anche al mattino, in sagrestia. Tutti potevano intervenire
nelle discussioni, tranne su argomenti che riguardavano i parenti ed incorreva
in peccato mortale chi riferiva all’esterno il parere di qualche prete21.
Una ritualità più ampia ed articolata riguardava l’elezione del sacerdote che
avrebbe dovuto sostituire un capitolare deceduto22. Al suono della
campana i sacerdoti convenivano in chiesa, entravano nella sagrestia cantando
Veni Creator Spiritus , «acciocché nell’elezione da farsi ci assista lo Spirito
Santo e si facci l’elezione di persona meritevole». La riunione iniziava con la
lettura delle credenziali dei concorrenti e, con successivo voto segreto, si
procedeva all’elezione di nuovo membro del Capitolo; se vi erano più concorrenti
si votava per uno alla volta. La nomina comportava l’ingresso del sacerdote in
sagrestia dove gli si dava la cotta, gli si attribuiva un posto nel coro, gli si
poneva la berretta in capo. Il nuovo capitolare giurava, con una formula
prefissata, di rispettare gli Statuti e tutti gli obblighi connessi
all’esercizio delle sue funzioni. Infine tutti i sacerdoti cantavano il Te Deum.
Il nuovo Canonico aveva l’obbligo di dare, per due anni, due paia di scarpe e
sei tomoli di grano al sacrestano della chiesa e, in più, doveva fare quattro
mesi di dieta percependo ugualmente le rendite spettanti. Far parte del Capitolo
era un elemento di sicuro prestigio e di acquisizione di uno status religioso e
sociale che garantiva una vita decorosa.
L’ultima parte degli Statuti riguarda il rito funebre23. In caso di
morte di un sacerdote del Capitolo si celebrava la messa cantata con i relativi
uffici. Ogni prete doveva celebrare tre messe in suffragio. Ai familiari del
defunto spettavano l’onere della cera e delle quattro torce intorno alla bara
durante la cerimonia funebre. Per tutti gli altri morti, con qualche eccezione
per i chierici, era stabilito: «Quando si fa il semplice Ufficio della
sepoltura, senza messa, sono li emolumenti quindici e libbre tre di cera bianca
(…) Quanto si cantano tutti li notturni laudi e la messa, l’emolumenti sono
venti e tre libbre di cera e la candela ad ogni prete che siede nella casa del
defunto».
Veniva cadenzato il rapporto con la fede fatto di una ritualità codificata
dall’osservanza di obblighi specifici e dettagliati. Emergono le regole di
comportamento, le sfere di azione e di influenza del clero di Guglionesi. Gli
Statuti capitolari risentivano del clima di un’epoca rigorista, nella quale
risultava indispensabile stabilire una rigida disciplina tra i sacerdoti ed
anche individuare gli ambiti nei quali inserire le funzioni religiose, con i
suoi aspetti devozionali nonché chiarire il ruolo dei singoli religiosi in un
contesto di rinnovamento sia disciplinare che morale. Il canonico puntatore
aveva il compito di verificare il regolare comportamento dei partecipanti. Il
vescovo era messo al corrente della situazione patrimoniale del Capitolo e
poteva intervenire per risolvere eventuali controversie, pur non arrivando a
incidere sulla nomina di ogni nuovo capitolare eletto e sui requisiti soggettivi
che questi doveva possedere. La parrocchia assumeva, dunque, un ruolo sempre più
rilevante, essa diventava la cellula fondamentale attorno alla quale ruotava la
vita religiosa e sociale della comunità. Agli inizi del Settecento, in un
contesto di generali trasformazioni, la chiesa patrimoniale si rafforzava ed,
attraverso gli Statuti, delineava gli ambiti del proprio intervento e
contribuiva, paradossalmente, con questo a riconoscere il potere vescovile che
era stato in ombra fino a quel periodo.
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1 Fu vescovo di Termoli dal 1569 al 1593. Si veda sulla figura di
questo vescovo: Luigi Sorella, Cesare Ferrante, dal Concilio di Trento a vescovo
di Termoli in Guglionesi in
http://www.ilmolise.net/new.asp?id=7567.
2 Giambattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, Cava dè
Tirreni, 1915, p. 241. Tommaso Giannelli, Memorie, trascrizione e note di
Michele De Gregorio, Di Rico, San Salvo, 1986, p. 73.
3 Scrive Cesare Ferranzio nella sua relatio ad limina del giugno 1592 (si
riportano i passi, tradotti dal latino, più significativi): «Impedito
dall’infermità non mi sono recato a Roma . Sono vescovo da 23 anni (dal 1569
n.d.r.) e ho vissuto di stenti; distrutta la cattedrale per l’invasione dei
turchi, cerco di ricostruirla in parte con il denaro mio e in parte con i
redditi della quarta parte delle decime.(...)Il campanile è distrutto come pure
la canonica ed il coro dei chierici, ci sono: una grande icona dipinta con
ottimi colori e indorata e un organo musicale messo da me insieme a tre pluviali
ornati d’oro, calici d’argento indorati e due campane. Così ho procurato che si
facesse a Montenero e il coro a Guglionesi nella chiesa di S. Maria Maggiore.
(...)Ho fatto il Sinodo diocesano dove ho stabilito che si portassero le sacre
reliquie con indossati i paramenti, ho tenuto prediche e tolto la citazione dei
censori per lungo tempo inopportuna e incongrua, non ho dato la prebenda
teologale perchè non c’è nessun teologo, nè esperto di diritto canonico. Non vi
è nessun maestro penitenziario, nè vi è nessun esperto di diritto canonico nè di
quarant’anni, nè ragazzo. Quindi non posso seguire le indicazioni del Concilio
di Trento. Non ci sono nella diocesi semplici benefici che possono assicurare la
prebenda (per questo l’arcidiaconato e il primicerio sono riunite nella stessa
persona). Tutto è a carico del primicerio Giovanni Battista, depositario di
queste pene. E’ proprio del vescovo di Termoli il Casale di S. Giacomo».
Archivio segreto vaticano, Sacra congregazione del Concilio (da ora Asv –Scc),
Relationes ad limina, Diocesis Thermularum, Ferranzio, 1592.
4 «Il Lunedì mattino à 18 sopra un cavallo accomodatoci da Messer Piero Biliotti
fiorentino, che nel Vasto et in Termoli tien casa, cò un suo servitore andai a
Guglianesi, Terra otto miglia lontana verso le montagne, ove si trovava il
Vescovo, per visitarlo, et avere la sua benedizione, avanti ch’io dessi
principio alle sacre predicazioni. Mi vide volentieri, mi diede desinare alla
sua tavola, mi espose all’udienza delle confessioni; mi benedì, e diede lettere
al suo fattore, et al Mestro giurato. E la sera stessa me ne ritornai a
Termoli». Serafino Razzi, Viaggi in Abruzzo, Introduzione e note di Benedetto
Carderi, O.P., D’Arcangelo, Pescara, 1968, p. 231.
5 Sulla figura di questo vescovo nel contesto diocesano si veda: S. Sorella,
Chiesa e città: uomini, rapporti, istituzioni in C. Felice, A. Pasqualini, S.
Sorella, Termoli, Storia di una città, Donzelli, Roma 2009, pp. 412-28.
6 Asv-Scc, Relationes ad limina, Michele Pitirro, 1693.
7 Claudio Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme
settecentesche(1675-1760) in Storia d’Italia Einaudi, annali 9, cit., pp.
738-739..
8 Archivio storico diocesi di Termoli (da ora AsdT), Capitolo Cattedrale, Atti
ufficiali, b. 1 fasc. 4. Ordine ribadito nel II Concilio provinciale del 1698.
9 Nel Concilio romano del 1725, voluto da Benedetto II, si ribadì l’ordine ai
vescovi di predicare nelle loro chiese ed inoltre «fu ordinata una stesura
accurata di inventari dei beni ecclesiastici delle singole diocesi e la
costituzione di ordinati archivi ecclesiastici(...), l’insegnamento della
dottrina cristiana, il disciplinamento delle feste, l’erezione dei seminari».
Claudio Donati, La Chiesa di Roma, cit., p. 740.
10 Sul tema della chiesa ricettizia di Guglionesi, sulle sue prerogative, sui
contrasti e sui contrasti con i vescovi di Termoli si veda: S. Sorella, Il
Capitolo della chiesa di Guglionesi ed i vescovi di Termoli: storia di un lungo
contrasto (1690-1884), in http://www.ilmolise.net/new.asp?id=5593.
11 I passaggi di questo percorso stanno, inizialmente, nell’opera di adempimenti
pastorali portata avanti dal vescovo Petirro il quale curò che fossero compilati
gli Statuti capitolari secondo le disposizioni del concilio provinciale tenuto
dal cardinale Orsini a Benevento nel 1693, ribadite nel II° concilio provinciale
del 1698 ; il clero locale rispose a quest’ordine solo il 23 febbraio 1716.
12 Archivio Parrocchiale di Guglionesi (da ora ApG), Statuti del Capitolo di
Santa Maria maggiore, 1716, il documento è composto di 71 pagine, diviso in 20
capitoli. Mancano le due pagine iniziali, Nelle prime pagine vengono riepilogate
le figure di spicco che hanno costituito il Capitolo tanto che «quasi tutti i
vescovi di Termoli l’hanno onorevolmente favorito colla loro continua residenza,
come chiara testimonianza ne fanno le lapidi sepolcrali e li cappelli di essi
Prelati che sino al numero di dodici pendono da essa Chiesa». Ibidem, p. 4.
13 Ibid., p. 7.
14 Ibid., pp. 10-13.
15 Ibid. , p. 15.
16 Ibid., p. 19.
17 Ibid., Della divisione e distribuzione delle rendite, pp. 30-38.
18 Ibid., B. 17, f. 27. Ciò durò fino al 1794. Infatti l’anno dopo, fu stipulato
un Istrumento nel quale si stabiliva l’abolizione di tutte le decime ad
eccezione di quelle riguardanti il grano con una riduzione da 14 a 10 misure a
versusa. ApG, B. 14, f. 1.
19 Il Capitolo eleggeva un puntatore che scriveva su un libro tutte assenze dei
sacerdoti annotando le eventuali cause di giustificazione.
20 Ibid., Capitolo XI. Delli divini Uffici. Anche per le citazioni successive.
21 Ibid., Capitolo XVI, Delle adunanze del Capitolo, cit. pp.58-60.
22 Ibid., Capitolo XIX, Dell’elezione dè preti Capitolari , cit., pp. 64-65,
anche per le citazioni successive.
23 Ibid., Capitolo ultimo, Delli funerali ed esequie, cit., pp. 67-69, anche per
le citazioni successive.