24/12/2009 ● Internet
Siamo da dove veniamo
L’intensità del senso di
appartenenza al proprio paese e alla sua comunità è qualcosa che dipende anche
dalle distanze. Non voglio dire che è qualcosa di misurabile in metri ,ma
l’attaccamento alla propria identità territoriale e culturale si pone,
stranamente, in un rapporto inversamente proporzionale alla distanza da essa.
Altrimenti non si spiegherebbe come i nostri concittadini all’esterno, possano
conservare un fortissimo legame che li porta in qualche misura, anche a
mitizzare ricordi, situazioni e relazioni umane in modo non sempre rispondente
alla realtà.
Qualche anno fa, mi è accaduta una cosa stranissima che vi voglio raccontare e
che rafforza questa mia teoria e mi induce, ancora una volta, a meditare sulla
complessità del genere umano quando si analizzano i rapporti interpersonali.
Una mattina, mi trovano di passaggio a Perugia durante una delle mie frequenti
visite ad Assisi che considero la mia seconda casa. Passeggiavo nel centro con
il naso all’insù ad ammirare gli edifici storici quando inaspettatamente, mi
sono sentito chiamare ed abbassando lo sguardo ho riconosciuto un volto
sorridente e familiare.
Era una ragazza di Guglionesi che era lì per studio ed è stato spontaneo per
entrambi salutarci calorosamente con un abbraccio ed un bacio. Per tutta la
mattinata siamo stati insieme a passeggiare e a discorrere circa la nostra vita,
dei nostri sentimenti, delle aspettative, delle ansie e delle paure che bisogna
affrontare con coraggio man mano che ci si presentano.
Insomma, tutto ciò che si fa tra amici che si vogliono bene e stanno bene
insieme.
Dopo aver bevuto una cioccolata calda in un bar ci siamo, a malincuore,
congedati dandoci appuntamento a Guglionesi.
Direte voi, embè!.. che c’è di strano? La stranezza risiede nel fatto che quella
ragazza io la conoscevo solo di vista, non avevo mai desiderato o avuto modo di
parlarci e se non ci fossimo trovati in quelle particolari condizioni di
lontananza dal nostro paese, sono certo che non avremmo mai vissuto un simile
momento.
La prova ulteriore sta nel fatto che a Guglionesi non ci siamo mai più
incontrati né ricercati: non c’era l’esigenza.
Quello dell’appartenenza credo sia un vero e proprio sentimento innato, del
quale io ho fatto esperienza fin da bambino.
Vi racconto a tal proposito un episodio della mia infanzia di cui solo con la
maturità mi sono reso conto.
Era circa il 1971 e mi trovavo a fare un campo scout regionale a Riccia.
La mia partecipazione era passata attraverso la scuola elementare di Guglionesi
nella persona del mio caro maestro Francesco Del Torto.
Eravamo ospiti in un grande edificio situato all’interno dello stupendo bosco di
latifoglie e gestito con polso fermo da una decina di suore.
I nostri istruttori non avevano voce in capitolo se non quando eravamo fuori in
escursione, in casa chi comandava erano le suore.
C’erano due enormi camerate di almeno una trentina di letti ciascuna e la
disciplina che scandiva i vari momenti della giornata era assolutamente da
caserma.
Pensate che per farci il bagno ci mettevano in fila nudi in mezzo alla camerata
e uno alla volta venivamo brevemente, ma energicamente, strigliati dentro una
tinozza di metallo.
Subito dopo, come in una catena di montaggio, ci asciugavano con due manate
sull’asciugamano in cui ci avvolgevano e dovevamo correre al nostro posto letto
dove preventivamente avevamo disposto con cura i nostri indumenti puliti a
partire da quelli intimi.
Avevo dieci anni, non mi faceva paura nulla e non ero esattamente un bravo
ragazzo.
Con me c’era un bambino del mio stesso paese che nonostante avesse circa la mia
stessa età era piccolo di statura, gracile, con la pelle più scura del normale
ed un’indole sciaguratamente docile e remissiva.
La nostalgia per la mamma lo faceva piangere tutte le notti e faceva la pipì a
letto.
Con la crudeltà di cui solo i bambini sono capaci, veniva preso in giro da tutti
sia con parole offensive che con stupidi scherzi di scherno.
Avevo il mio da fare a ristabilire continuamente le condizioni di rispetto e di
correttezza nei suoi confronti.
Diciamo, per capirci, che non passava giorno che non mi scazzottassi con
qualcuno. Infatti, proprio durante una di queste zuffe, accadde che feci uscire
il sangue dal naso ad un bambino termolese, grasso, viziato, sbruffone e figlio
di papà che, alla vista del suo sangue si spaventò tanto che urlando prese a
correre ed incespicò ruzzolando malamente giù per una piccola scarpata tra i
rovi. Si ruppe un braccio.
Le suore dovettero avvisare i genitori che arrivarono con un’automobile scura di
forma tondeggiante e se lo portarono via per non tornare più.
Dai salamelecchi che fecero alla coppia capii che doveva essere gente importante
e distinta, lui aveva un cappello nero a falde larghe e lei indossava la
pelliccia.
Dalle religiose l’episodio fu vissuto con grande imbarazzo ed io venni chiuso
dentro una stanza a scontare la punizione che consisteva nel restare un giorno
senza mangiare e senza poter uscire.
Grazie al fatto che ero magro scappai dalla finestra passando nello spazio tra
le inferriate e quel giorno stetti nel bosco a caccia di lucertole, ramarri e
serpenti, lontano dagli altri ma attento a non smarrirmi. Rientrai solo la sera
all’ora di cena.
Il giorno successivo, a pranzo, le suore si presero la rivincita e fui io stesso
causa del mio male perchè a gran voce, mi rifiutai di mangiare il minestrone.
Allora mi afferrarono in due e me lo fecero mangiare a forza usando una tecnica
che evidentemente avevano ben collaudato. Una mi teneva ferme le braccia da
dietro mentre l’altra mi imboccava con grosse cucchiaiate tenendomi
contemporaneamente serrato il naso tra le sue dita.
Non c’era scampo, dopo ogni boccone, per poter respirare, ero obbligato a
deglutire la brodaglia.
Ebbene, nella particolare condizione di lontananza da casa mia, quel bambino
rappresentava la mia famiglia, le mie radici ed anche la mia dignità.
Io gli volevo bene e come suo amico e compaesano mi sentivo naturalmente in
dovere di proteggerlo in un posto così lontano da casa nostra.
Conoscevo la sua situazione familiare che era disastrosa in quanto non aveva il
papà, la madre era senza lavoro e con altri fratelli più grandi di lui da
portare avanti
In definitiva lui non era una cosa diversa da me stesso e difendendo lui io
difendevo la mia “Patria lontana”.
Vivendo stabilmente a Guglionesi non ho più avuto modo di provare un sentimento
simile ma è rimasto bellissimo ed indelebile nella mia mente poiché è uno di
quelli che io classifico fondamentale come lo sono l’amore per la vita, per i
genitori e familiari, per la propria moglie e per i propri figli.
L’invadenza subdola delle nuove tecnologie che si insinua nelle nostre vite ci
rende cittadini del mondo navigando per l’intero pianeta e ci sentiamo
provinciali all’idea di spenderci per il nostro piccolo paese, ma è un errore,
perché noi siamo figli di questa nostra terra, della gente che la abita ed eredi
di quella che ci ha preceduti.
Concludo queste riflessioni lasciandovi i miei migliori auguri per Natale, un
grande abbraccio a chi è lontano sia fisicamente che spiritualmente e, per chi
può, un invito a vivere tutti i momenti che saranno proposti nel periodo, sia
religiosi che civili perché noi apparteniamo a questa storia, questo paese è
casa nostra.
Il paese siamo noi.